
THE LOBSTER
Yorgos LanthimosSezione minore a Berlino (Kinetta), sezione minore (“Un certain regard”) a Cannes (Dogtooth), concorso principale (e premio laterale) a Venezia (Alpis), e ora il concorso principale a Cannes. In soli quattro lungometraggi, il geniale Yorgos Lanthimos ha compiuto un’esemplare scalata del circuito festivaliero internazionale. Installatosi a Londra da qualche anno, il regista è riuscito, per questo Lobster, ad assicurarsi un cast da urlo (Colin Farrell, Rachel Weisz, John C. Reilly, Lea Seydoux…) e un budget piuttosto robusto.
_x000D_Una lettura veloce della sinossi dà già adeguatamente la misura di ciò che aspetta lo spettatore. In una civiltà imprecisata che però assomiglia in tutto e per tutto al nostro presente occidentale, i single vengono rinchiusi in un albergo di lusso, dove dovranno trovare un partner in un numero di giorni prefissato, ma prorogabile qualora il/la detenuto/a riesca ad acciuffare uno o più single clandestini che si rifugiano nella foresta, nel corso di periodiche battute di caccia organizzate all’uopo. In caso contrario, il/la detenuto/a viene trasformato in un animale di sua scelta, e rilasciato.L’aragosta (Lobster, appunto) è l’animale scelto dal protagonista; il film, però, non è esattamente costruito intorno a lui, bensì intorno agli sforzi suoi e di una single clandestina di coronare il loro amore nonostante i simmetrici e speculari ostacoli frapposti tanto da un potere brutalmente amministrativo-burocratico quanto dalla “resistenza ufficiale” ad esso, annidantesi nei boschi al di fuori della sua presa.Ci riusciranno? Non è ovviamente il caso di spoilerare, ma bisogna immediatamente sgombrare il campo da un equivoco: non si tratta minimamente di un film cinico, anche se in superficie può sembrarlo. Al contrario, The Lobster sembra fatto apposta per smontare pezzo per pezzo il venefico cinismo vontrieriano dei vari Antichrist e Nymphomaniac. Al posto del pessimismo facilone di titoli come questi, si assiste qui all’emergere della possibilità della coppia sullo sfondo della propria intrinseca impossibilità. La possibilità della coppia è il centro vuoto intorno a cui viene costruita l’intera sceneggiatura, che a forza di far proliferare i doppi e gemmare concettualmente le differenze sfoglia uno ad uno i mille modi in cui una coppia non può che fallire. Sulla scia di questo principio sfacciatamente cerebrale, il film diventa un sistema di spigoli vivi che Lanthimos giustamente non fa nulla per smussare, soprattutto perché esso ingenera automaticamente un irresistibile humor dell’assurdo: chi si masturba viene costretto a infilare le mani in un tostapane; un innamorato si mette di colpo a sbattere la testa contro un comodino affinché gli sanguini il naso per poter piacere a una ragazza costantemente affetta da epistassi; e così via… Su questo sistema di spigoli vivi messo insieme dalla scrittura, viene innestato un apparato visivo di meticolosa, quasi ossessiva precisione grafica (del resto, il protagonista è un architetto) – la quale però viene molto spesso “smangiata” da dentro dall’informe: negli interni, dalla luce; negli esterni, dalle distese d’erba irlandesi o ancor più sovente dall’acqua.
Laddove un von Trier tende all’autosufficienza del quadro, cercando così di far risucchiare il cinema nell’arte contemporanea, Lanthimos segue il percorso contrario: le sue inquadrature strabordano di squadrato formalismo grafico, ma il montaggio, decisamente più veloce che nelle altre sue opere, nel metterle insieme tenta di rincorrere un’ordinaria continuità “Hollywoodiana”, mancandola sempre per un pelo. La recitazione, qui più naturalistica del (suo) solito, va nella stessa direzione, stridendo felicemente con la selvaggia astrazione di tutto il resto. La continuità, come la coppia, non è semplicemente impossibile, ma è il centro vuoto che non si riesce mai a centrare, rosicchiandone invece costantemente i margini. Alla base di tutti i suoi film c’è un microcosmo fondato su un sistema di regole dalla logica tanto inoppugnabile quanto arbitraria e fondata sul nulla; The Lobster illustra come liberarsi tanto di queste regole quanto della loro assenza, la quale in realtà è ancora più regolata e opprimente: i single clandestini, per auto-organizzarsi, scelgono di sottostare a codici ancora più rigidi di quelli dell’hotel. Il segreto di questa liberazione (dunque dell’amore)? Trovare nel reciproco essere oggetto dello sguardo dell’altro il miracoloso spazio cieco dentro cui tessere le regole che si applicano a null’altro che al proprio caso.
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VOTO: 8.5
L’OMBRES DES FEMMES
Philippe GarrelEd è più o meno alle stesse conclusioni che arriva, sorprendentemente, L'ombre des femmes di Philippe Garrel, strepitosa apertura della Quinzaine des Réalisateurs. Lui, omuncolo indegno e sedicente documentarista alle prese con l'inconcludente lavorazione di un film sulla Resistenza; lei, donna “di sostanza” e suo benevolo appoggio. L'altro e l'altra, inevitabilmente, completano il quadro. Garrel riesce, forse per la prima volta, e senza rinunciare alle malie di una scrittura asciuttamente analitica (quattro sceneggiatori accreditati, incluso Jean-Claude Carrière) a sciogliere il marivaudage forse più banale del mondo in un ipnotico gioco luminoso: lei è la luce, dunque il movimento, lui una macchia opaca, dunque la fissità. Il loro rincorrersi, sciogliersi e riannodarsi è davvero cinema puro, e in quanto tale non ha bisogno del “biglietto di ritorno” dall'arte cui ricorre Lanthimos; d'altro canto, esattamente come nell'apolide film del regista greco, proprio al fine di resistere davvero sfatare il mito della Resistenza si rivela altrettanto imprescindibile che combattere il potere.
_x000D_In questo senso, risulta illuminante accompagnare (come è avvenuto qui a Cannes) L'ombre des femmes a Actu 01, cortometraggio che Garrel girò nel 1968 e che credette perduto per decenni prima del suo recente ritrovamento. Immagini degli scontri del maggio francese vengono accompagnate da frasi in voce over prese da Francesi, ancora uno sforzo se volete essere repubblicani del marchese De Sade, e incorniciate da una finestra che si apre e da una contemplativa, anzi lumieriana carrellata laterale su un ponte. Più di trent'anni prima di Gli amanti irregolari, Garrel sentiva già, anche se forse con meno lucidità, che se la liberazione è conflitto, il conflitto va cercato nel rivelarsi delle cose sulla loro apparenza – perché non esiste nulla di meno pacifico della luce.
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VOTO: 9