
Non è raro che Cannes ci metta un po' ad ingranare. La prima metà del festival è spesso la più debole – e anche in questa sessantasettesima edizione non sono mancati i momenti di – lo si può dire, purtroppo – vivo imbarazzo.
_x000D_Il Tumbuktu con cui Abderrahmane Sissako ha inaugurato la competizione, ad esempio, non si sa proprio come prenderlo. Era l'occasione buona per consacrare un ottimo autore finora relegato nelle sezioni minori; il film, tuttavia, stempera la sospensione dei suoi precedenti lavori con una raffica di mitra sulla croce rossa (i fondamentalisti islamici che tiranneggiano la città del titolo) e con lo sfoggio di un tutt'altro che banale repertorio di squarci lirici ahimè gratuiti e arbitrari.
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Delude anche Winter Sleep di Nuri Bilge Ceylan. A differenza del precedente (ed eccellente) Once Upon a Time in Anatolia, dopo un quarto d'ora è già chiarissimo dove andranno a parare le tre ore che seguiranno: l'agnizione di un non più giovane, brillante ma cinico ed egoista benestante, che arriva lentamente a recuperare la propria perduta umana elasticità. Non è necessariamente una cattiva idea chiudere i personaggi quasi esclusivamente in interni e farli dialogare a ritmi di estenuante (e quasi tarantiniana) “rilassatezza”. Lo è già di più barattare la maestria paesaggistica di Ceylan con un ben più anchilosato “scrivere con la luce” consistente in un gioco tutto sommato poco inventivo di fonti di luce (finestre, lampade…) che segmentano le stanze con una perizia più modesta del solito.
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E non sarà certo Captives a togliere il cinema di Atom Egoyan dall'impasse in cui sembra essersi cacciato negli ultimi anni. Ne è anzi la rassegnata conferma. Trattasi di una parafrasi/riconfigurazione de Il dolce domani in chiave di “resa narrativa”: laddove la pellicola del 1997 si affacciava ai bordi della narrazione spingendosi oltre, Captives ne ri-narrativizza temi, forme e speculazioni meta-linguistiche giusto per limitarsi all'oziosa constatazione che il virus delle storie non può che propagarsi senza fine.Quanto alle sezioni minori, va già meglio, ma niente di trascendentale. Messe da parte le olimpiche altezze di Fred Wiseman, che continua col suo magnifico National Gallery (nella “Quinzaine des réalisateurs) il suo viaggio nelle istituzioni artistiche e nelle loro complesse ramificazioni, rimangono da segnalare (in “Un certain regard”) soprattutto La chambre bleue di Mathieu Amalric e White God di Kornel Mundruczo. Il primo rilegge un romanzo di Simenon enfatizzandone (attraverso un lussuosissimo apparato stilistico) la componente paranoico-misogina; il secondo è una parabola anti-razzista ideologicamente assai problematica (non a caso il titolo cita apertamente Sam Fuller), formalmente diseguale, indecisa riguardo al genere (è un horror o un confettone disneyano?), ma proprio per questo vitale: ha il coraggio di scavare dentro una ferita aperta senza soluzioni facili.
Unico squarcio di vera luce in questa prima tranche di concorso, Saint Laurent di Bertrand Bonello. Un biopic? No: un'agiografia. La vita di un santo, che si ritira progressivamente dal mondo per celebrare in solitudine il godimento dell'assenza di godimento. Più che mettere in scena il leggendario stilista, Bonello lo fa letteralmente sfilare: costruisce intorno al corpo in movimento dell'interprete Gaspard Ulliel un'estenuata solennità, in felice contrasto con il modernista collage di frammenti che compongono quest'opera ambiziosa e sovraccarica di idee. Saint Laurent mostra con chiarezza che con YSL ci si trova davanti a un bivio: Warhol o Visconti – e sceglie il secondo. Non il riconoscere se stessi quali morti e/o mercificati nella serigrafia (tomba dell'arte), ma il decadente godere del ritrarsi del proprio corpo rispetto al farsi immagine di se stessi attraverso la merce. L'arte – pittorica – che non vuole saperne di morire, e non finisce mai di morire.