
Personal Shopper
_x000D_(Olivier Assayas)
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Quando nel precedente Sils Maria (2014) Kirsten Stewart scompariva di punto in bianco e definitivamente, era chiaro come il sole che Olivier Assayas non aveva ancora finito con lei. Nel resto del film, infatti, non era affatto difficile avvertire la fascinazione che il regista nutriva per quell'attrice; non sorprende, dunque, che questo nuovo suo Personal Shopper sia costruito interamente intorno alla sua giovane (e senz'altro provvisoria) Musa.
_x000D_Nel bene e nel male, si sa, l'ex critico Olivier Assayas non è un regista viscerale: è un regista analitico. Man mano che le sequenze si inanellano, appare molto chiaramente, in filigrana, quella che fase per fase deve essere stata la genesi del film: all'origine ci sarà stato il colpo di fulmine, la sensazione che l'apparenza della Stewart già da sola, con quella sua aria tra l'inquieto, l'abissale e l'ottuso, può contenere da sola un intero film; poi ci sarà stata, di conseguenza, l'idea di quale film perseguire (un horror, per quanto atipico); poi ci sarà stata di conseguenza l'articolazione dei topoi (una casa “stregata”, qualche fantasma; poi ci sarà stata di conseguenza l'invenzione del personaggio (una personal shopper, cioè una giovane “precaria” parigina che compra cose e vive cose per conto di una star ultraaffermata e confortevolmente reclusa); poi di conseguenza qualche scena-chiave (quelle in cui la protagonista si trova assediata dagli spiriti); poi di conseguenza la storia (la protagonista aspetta “un segno” dal fratello morto, un medium, ma si ritrova preda di misteri e forze sovrannaturali sempre meno addomesticabili…), poi di conseguenza i personaggi di contorno e le scene di raccordo, di rinforzo e di approfondimento… In una parola, lo sviluppo. Assayas è uno che tendenzialmente si fida poco delle sue intuizioni e dele sue fascinazioni, e cerca sempre di elaborarle, di farle sorreggere da un robusto sviluppo, fino talvolta a consumarle: è il suo pregio e il suo limite.È anzi, in Personal Shopper, l'unico vero limite: per il resto si tratta di un'opera assai affascinante, che fa tesoro della libertà consentita dal genere in un modo molto simile a cui di recente c'è riuscito, per esempio, un Kurosawa Kiyoshi. La presenza invisibile dei fantasmi non è altro che il frutto del mancato autocomprendersi della tangibile assenza che qualifica la protagonista. Essa vive per interposta persona: non ha una vita sua, ma se la guadagna vivendo per conto della star di cui è alle dipendenze, sostituendosi a lei nelle piccole magagne quotidiane. Ma proprio per questo, la protagonista è come che non ci fosse, che non vivesse: i fantasmi, quel “qualcosa” che invece vive e che non dovrebbe, è nulla più che il riverbero di questa mancanza.
_x000D_Assayas, regista fin troppo consapevole nel bene (molto) e nel male (poco), sa benissimo che sta maneggiando una materia dalle grosse potenzialità sociologiche, e ci marcia parecchio, facendo della sua eroina una sorta di epitome dell'oceano di persone che vivacchiano senza molta convinzione ai margini del terziario avanzato. E infatti i suoi fantasmi non sono personali, ma intransitivi: non hanno a che fare esclusivamente con la protagonista, ma circolano tra i soggetti. Ciò che differenzia la prima dai secondi, è che questi ultimi (il nuovo fidanzato della ragazza del marito, il fidanzato della star etc.) trovano tutti un modo più o meno giusto o più o meno sbagliato per tallonare e affrontare questa mancanza; la protagonista, invece, materializza quel puro punto di angoscia che il soggetto abita una volta messo davanti al vuoto che esso fondamentalmente è.
_x000D_La parola chiave qui è “materializza”. Di nuovo: l'intera operazione consiste nel rinvenire nelle apparenze di Kirsten Stewart questo spaesamento. Come i registi davvero grandi, da von Sternberg a Godard a numerosi altri, Assayas lavora magistralmente con la propria attrice in modo da contemplarla e crearla con lo stesso gesto registico (come già aveva fatto, tra le altre, con Maggie Cheung); in modo, cioè, da dare rilievo esplicito alle potenzialità espressive che la sua immagine solo implicitamente suggerisce. Il punto però non si limita alla singolarissima inquietudine che va formandosi sul volto della Stewart, ma della robusta abilità, di nuovo, materiale che Assayas dimostra in un gran numero di scene: valga per tutto l'uso di luci, ritmi e spazi nelle scene nella casa “stregata”. Solo gli ingenui possono obiettare che queste scene “non fanno paura”: non la devono fare; il proposito è metterci davanti a un'angoscia che (si perdonino i toni stucchevolmente sociologici, ma essi sono tutt'altro che estranei all'approccio assayasiano) “caratterizza la nostra epoca”.Jarmush, Nichols, Mendoza, Mendonça Filho
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Personal Shopper rimane tra gli esiti più ragguardevoli di un concorso negli ultimi giorni in lieve flessione: delude Jarmusch che col suo Paterson tratta il minimalismo come una benzina per far raggiungere a un film la sua durata standard, trascurando così di esplorare le sue implicazioni formali; delude Jeff Nichols che in Loving commette l'imperdonabile errore di anteporre, sia in senso cronologico che valoriale, una qualche “giustizia naturale” alla giustizia delle leggi, subordinando completamente la prima alla seconda anzché rinvenire una più consona articolazione reciproca. Non delude più, finalmente, Brillante Mendoza, che col suo Ma' Rosa capisce che è ora di tornare ai fasti dei suoi primi lavori (anche se ci riesce a metà). Incuriosisce il brasiliano Kleber Mendonça Filho, che decide di sprecare il suo enorme talento visuale (e sonoro) a servizio dell'interminabile autocelebrazione di Sonia Braga, protagonista esclusiva del suo Aquarius, sorta di delirio solipsistico che si lascia guardare volentieri proprio la sua annichilente futilità (a cui rimane impigliato un sottotesto “immobiliare” di indubbia attualità, ma troppo troppo esile).