CARTOLINA DA CANNES (13/05/2018) – Le guerre di Nicloux e Glavonic

Sguardi dalla Quinzaine des Réalizateurs.

Le immagini brutali dell’Indocina degli anni 40 di Les confines du monde di Guillaume Nicloux, sorta di variazione decadente di Cuore di tenebra, sono quelle di una guerra esteriore che non fa che rifletterne una intima. In un mondo di zombie che fingono di essere ancora vivi, sperano in un futuro impossibile (per puro automatismo si parla di famiglia e di figli), in cui la donna che si vuole è un vampiro, il compagno di brigata qualcuno che non conosci affatto e gli animi sono sostenuti solo dalla rabbia, il protagonista (Gaspard Uillel), un tenente sopravvissuto a un massacro, ricostruita la sua identità, si perde in un delirio di vendetta (suo fratello e la moglie di questi sono stati trucidati sotto i suoi occhi) che non ha più un vero obiettivo (la lunga sequenza finale: la durezza dello sguardo di Robert, fisso verso un orizzonte senza sbocchi). Splendido film psicanalitico in forma di cronaca dall’oltretomba, abitato di doppi e sensi di colpa e pervaso da un nichilismo disperatissimo.

Se della ghiaccia commedia di Romain Gavras (Le monde est à toi, accolta trionfalmente) diremo con la diffusione che merita (in un futuro indefinito, con una scheda apposita), si candida autorevolmente alla Camera d’or (il premio per l’opera prima) Teret (Il carico) dello yugoslavo Ognjen Glavonic che passa, dopo alcuni documentari, al lungometraggio di fiction. Siamo nel 1999 Vladan lavora come autotrasportatore durante i bombardamenti della Serbia da parte della NATO ed è incaricato di trasportare una misteriosa merce dal Kosovo a Belgrado. Il carico del titolo, sul quale Vladan rifiuta di porsi domande, contiene la tragedia di un popolo con la quale il protagonista dovrà alla fine confrontarsi. Il percorso del protagonista si è intanto fatta incursione metaforica nel tempo e nello spazio: senza compromettere mai il dato realistico, le varie tappe di questo tragitto, gli incontri, gli inciampi si fanno altrettanti detour che aprono il percorso a fulminei sguardi su altri personaggi, altre storie potenziali in boccio, sollecitando letture molteplici. Così ogni svolta narrativa da un lato continua a raccontare, dall’altro simboleggia una riflessione sul presente e una ricognizione sul passato recente. Quello che impressiona è la padronanza della messa in scena: Glavonic con solenni movimenti di camera, ricorrendo spesso al piano sequenza disegna un luogo e un tempo storici, laddove l’orrore della guerra e dei cadaveri è posto in secondo piano, in una sorta di rimozione che sembra riprodurre quella che opera lo stesso Vladan.