CARTOLINA CON PALMA DA CANNES 2019 – BONG E GLI ALTRI

Ladj Ly, premio della giuria (Les Misérables)

È difficile non guardare con favore, e con indubbia simpatia, a una Palma d’Oro come quella di quest’anno. Dopo il disastro “glocal” di Okja, Bong Joon-Ho è tornato saggiamente a una dark comedy coi piedi ben piantati nel contesto industriale nazionale e con due, tre occhi alle regole di quel gioco. Era il caso, del resto, anche del suo primo film, ma quasi vent’anni di esperienza ai massimi livelli sono passati nel frattempo, e in Parasite (recensione a breve) si vede benissimo: il film dà sfoggio di una grande abilità di costruzione e tenuta del ritmo (a prescindere dalla solita catarsi di lunghezza iperestenuata cui ci ha ormai abituato tanto cinema coreano), di un cast rimarchevolmente affiatato e ben diretto, di una modulazione dei toni straordinariamente precisa sullo sfondo del grottesco spinto, di una narrazione ottima e abbondante, impreziosita da numerosi guizzi e da una lucida articolazione degli spazi. Se poi il film non riesce, parlando del dislivello sociale tra i lumpenproletari e l’alta borghesia, e nonostante la sua grande e poliedrica intelligenza, a liberarsi di un certo paternalismo che getta ombre non piccolissime sulla dimensione ideologica del film, pazienza; a livello puramente “muscolare” Parasite rimane comunque un esito memorabile.

Antonio Banderas, migliore attore

Sarebbe stato dunque più consono, forse, per Parasite, un Premio per la Regia, perché quella di Bong è davvero tra le migliori viste quest’anno, e perché l’ennesima palma ai Dardenne, per giunta con un film del genere, è una barzelletta che ormai è stata spernacchiata praticamente da chiunque. E magari, sempre per Parasite, anche un premio al miglior attore per il sommo Song Kang-ho – anche se quello a Banderas può benissimo starci, soprattutto in un’ottica “premio alla carriera con un altro nome”. Non si grida allo scandalo nemmeno per la palma dell’interpretazione femminile, anche se nel caso di Emily Beecham la concorrenza latitava: non si può dire, infatti, che in questo concorso abbondassero ruoli femminili di uno spessore tale da stimolare grandi performance attoriali.
I premi della giuria sono di stampo riconoscibilmente “geopolitico”. Che il presidente fosse il “geopolitico della mutua” Iñárritu spiega l’incomprensibile premio a Bacurau, opera diversa da quelle del messicano ma che con esse condivide un’analoga, scoraggiante superficialità e schematicità. Più interessanti le disamine delle tensioni nelle periferie delle città occidentali da parte dell’ex aequo Les Misérables, e nelle metropoli del terzo mondo da parte del Gran Prix Atlantique (recensione in arrivo); due opere di qualche ambizione politica e formale, e che in qualche modo cercano di legare coerentemente questi due livelli, ma ancora piuttosto acerbe. Si spera dunque che queste due Palme vengano intese non come una consacrazione, ma piuttosto come un incoraggiamento a sviluppare un cinema più compiuto e compatto.
Completa il quadro il premio alla Sciamma, uno di quei premi che ha stampato in fronte “il film è bello, non sappiamo come premiarlo, e quindi premiamo la sceneggiatura” (Lanthimos, abbonato a questo genere di riconoscimenti, ne sa qualcosa).
Nel complesso, un buon palmarès: magari non sono stati premiati tutti i film migliori (non succede mai, pressoché matematicamente), ma a parte Desplechin non ci sono nemmeno grosse recriminazioni, poiché se i giganti (da Tarantino a Malick, a Bellocchio etc.) svettavano incontrastati, d’altro canto un ulteriore riconoscimento non avrebbe aggiunto granché alle loro carriere…