
“Ma no, ma figurati se premiano Paul Verhoeven, a settant’anni passati e senza più niente da dimostrare a nessuno…”. Se lo sono detti in tanti, dopo che Elle, film davvero di un’altra (e migliore) èra se non addirittura di un altro pianeta, ha schiacciato tutti con l’evidenza di essere di gran lunga il titolo migliore del concorso.
_x000D_Poi arriva la cerimonia di chiusura, ed ecco che la giuria presieduta da George Miller opta per un verdetto incomprensibile o magari addirittura veneziano (e non è certo un complimento), premiando un ottantenne con già una Palma alle spalle, sulla Croisette con un film che neppure i suoi più che legittimi sostenitori si sarebbero sognati di includere tra i migliori di un Concorso il cui livello è stato, secondo quasi tutti, alto come poche volte è avvenuto negli ultimi anni.
_x000D_E visto che è oggettivamente difficile, in questi casi, giudicare un premio solo sulla base del rispettivo film e non anche sui trascorsi del suo autore, si rimane perplessi davanti all’accanimento con cui Cannes continua a pompare le carriere dei sopravvalutati Andrea Arnold (Premio della Giuria!) e Xavier Dolan (Gran Premio della Giuria!), entrambi generosamente premiati in passato. Varrebbe anche per Cristian Mungiu, vincitore nel 2007 che ora porta a casa il Premio per la Miglior Regia, se non che il suo Bacalaureat (olimpica Opera Della Maturità), invece, lo merita eccome – e ancora di più lo merita (ex aequo) Personal Shopper, la più bella sorpresa di questo palmarès, il tipico Assayas finto-minore (e in realtà ambiziosissimo e diabolicamente cosciente e “quadrato”) che sembra fare di tutto per rimanere incompreso e financo deriso (moltissimi i fischi nella proiezione stampa). Da salutare con favore anche il vincitore della sezione Un Certain Regard, Hymyilevä mies di Juho Kuosmanen, film in costume (siamo nel 1962, in una Finlandia in fibrillazione perchè sta per ospitare per la prima volta una sfida mondiale di pugilato) che rispolvera il vecchio conflitto tra l’amore e il dovere con una freschezza e un’energia a cui oggi non siamo più abituati.
_x000D_Per il resto, ordinaria amministrazione. Plausibili i riconoscimenti a Forushande di Asghar Fahradi per la sceneggiatura e per l’interpretazione maschile; idem quella femminile a Jaclyn Jose (Ma’ Rosa di Brillante Mendoza, film la cui struttura gioca, ironicamente, in larga parte sulla progressiva marginalizzazione della importanza di lei come protagonista), anche se…_x000D_… Anche se tutti (o quasi), vedendo Elle (voto 9+), hanno pensato che Isabelle Huppert non avrebbe avuto alcun rivale. Insostituibile e decisiva nello spalleggiare Verhoeven, la Huppert dà corpo a un personaggio che vota la sua intera vita, a causa di un trauma infantile, a minimizzare la portata potenzialmente tellurica di quelle due facce della stessa medaglia che sono il trauma (tutti i traumi, straordinari e quotidiani, propri e altrui), e il godimento (roba che tuttalpiù si finge, e buona al massimo per i videogiochi). Verhoeven, analogamente, fa subire alla sua protagonista uno stupro appena dopo i titoli di testa, ma lo ricaccia subito in secondo piano, quasi dimenticandosene strada facendo (e risolvendo in seguito il “mistero dello stupratore mascherato” giusto en passant, quasi per caso) per dedicare invece la maggior parte del film a un paziente sviluppo dei rapporti (intricatissimi) tra i personaggi intorno a “lei”. Eh già, il segreto di Verhoeven è in fondo semplicemente questo: una scrittura solidissimamente classica, e una regia che appena sotto le apparenze di schietta brutalità mette a frutto ancora oggi la nobile arte del prosciugare radicalmente la propria materia fino a che rimanga da un lato l’essenziale, nella sua scarna spettralità, e dall’altro l’eccesso della scrittura, ovvero non tanto il sangue, il godimento, il conflitto, la violenza, ma queste stesse cose una volta che hanno scontato la loro intrinseca inconsistenza e si sono esibite quali la pallida ombra di loro stesse, fino a sciogliersi nella risata, o più spesso in un sorriso imbarazzato (Elle è infatti, in larga parte, e in geniale contropiede tonale, una commedia). Di questa inconsistenza, che la protagonista affronta e fa propria, Elle ci offre una preziosa, tortuosa, illuministica cartografia, da esplorare spira per spira, perchè se mai esiste una soggettività “contemporanea”, conforme ai nostri tempi (questione su cui il film sembra volersi soffermare parecchio), è in questa inconsistenza che ne va cercato il segreto.
_x000D_Cominciato alla grande, proseguito con qualche incertezza tra vecchi autori tanto irrinunciabili quanto ormai anodini (i Dardenne, Almodovar…); autori più giovani ma già prigionieri di loro stessi (Dolan, il pur bravo Mendoza, e in misura minore anche Refn, il cui The Neon Demon esplora ingegnosamente gli intrecci tra sguardo, desiderio, moda, gender e necrofilia grazie a una stilizzazione grafico-monumentale al di là del delirante, ma che in fondo era idealmente “contenuta” già nelle sue ultime opere); americani come sempre (sulla Croisette) sottotono, o magari semplicemente inguardabili come il ributtante The Last Face di Sean Penn (due medici senza frontiere che si innamorano sullo sfondo di varie guerre africane e un numero imprecisato di bambini con gli occhioni che sembrano usciti freschi freschi da “We Are The World”, e ripresi da qualche seconda unità al più totale sbaraglio); questo Concorso 2016 non poteva chiudersi in maniera migliore, l’ultimo giorno del festival, che con Elle._x000D_