TRAMA
Un giorno d’estate Lara muore, ma Pietro, suo marito, non è con lei: è al mare e salva una sconosciuta che rischia di annegare. Il primo giorno di scuola Pietro accompagna sua figlia davanti all’istituto e decide di aspettarla fino alla fine delle lezioni. Lo farà ancora. E ancora.
RECENSIONI
Il caos calmo è, sostanzialmente, quello dei bambini: gioioso, privo di drammi, che contagia gli stessi adulti; una confusione innocua che il protagonista coglie nella sua essenza all'uscita di scuola, quando ha modo di notarla nel suo lento formarsi: è questa, culminante in un bel dolly, la scena più riuscita di un film che invece quando tende (come quasi sempre fa) alla pura narrazione non si solleva di un palmo, tutto ripiegato sulla necessità di restituire la dimensione del protagonista che, perduta la moglie, si distacca dalla tensione infernale della sua vita professionale e abbraccia il caos calmo del mondo di sua figlia, una decisione che viene vista con generale sospetto, ma anche con tacita ammirazione, se non invidia; la tragedia, sconvolgendo la vita dell'uomo, azzera la sua realtà che diviene un mondo tutto da ridefinire. Pietro dalla panchina cerca di rimettere ordine, interroga la sua inspiegabile apatia, esterna una rinuncia al successo che spiazza gli avvoltoi che lo circondano: diventa un punto di riferimento, tutti lo incontrano per accertarsi del suo problema, in realtà rivelando il proprio. Parallelamente Pietro rielabora il rapporto con la compagna scomparsa, divorato dal dubbio che lei soffrisse per la sua indifferenza, per una sua mancanza d'amore. Riconsidera tutto: il confronto con la posta elettronica è, in tal senso, il momento cruciale della sua meditazione poiché pone l’uomo di fronte all'alternativa della piena rivelazione dell’intima vita della consorte, a lui sconosciuta, e il rinunciare del tutto a sapere (quello in cui si può sapere è un momento di grande potenza in cui si è, paradossalmente, estremamente deboli): Pietro distrugge la lista delle mail prima che quella lista distrugga lui e lo fa ancora con la “fatale” complicità della figlia.
Il film è tratto dal romanzo, Premio Strega, di Sandro Veronesi, forse uno dei pochi autori italiani che può vantare una scrittura davvero internazionale (rileggersi di corsa Venite venite B-52): Caos calmo, nello specifico, fa molto Mc Ewan (per i temi e le simmetrie narrative più che per lo stile: la scena del salvataggio iniziale – sciatta, quando il film chiede un’impennata di ritmo il regista arranca -, come elemento scatenante di una serie di elucubrazioni e conseguenze suona come una variazione dell'episodio iniziale de L'amore fatale; più di un elemento riporta alle atmosfere di Bambini nel tempo), anche se nella sua asciuttezza e varietà di soluzioni vira molto di più su certa letteratura americana postminimalista; a ben guardare il libro si rivela un puzzle di elementi e suggestioni raccolte un po' ovunque (leggende metropolitane delillo-pynchoniane, la sindrome di Tourette – Testadipazzo di Lethem -, i gruppi di ascolto - Palahniuck, Wallace etc -, le incertezze reali e virtuali del Postmoderno - Coupland -, il nuovo giornalismo americano - la cui ostentata soggettività impregna un po' tutta l'opera dello scrittore -. CC è, insomma, un romanzo estremamente cosciente, molto costruito, un libro più di testa che di stomaco, discretamente furbetto, che sostanzialmente merita il successo che ha e - complice il film - avrà; una storia narrata in prima persona, densa, in cui domina il lavorio interiore del protagonista, con uno spessore e una pletora di dettagli che l’immagine filmata, eccoci al punto, non riesce a far intuire (e in questo nulla di male se non fosse che la pellicola poggia radicalmente sulla pagina scritta e vive certe elusioni più come dei vuoti incongrui che come delle ellissi). Il film, dunque, posta una certa libertà traspositiva (l’azzardato e superfluo flashback veneziano), gli opportuni(stici) semplicismi, costruisce la sua debole trama scorporando gli episodi del libro e riportandoli in chiave semioggettiva (Pietro e il suo sguardo rimangono il riferimento costante di tutto quello che vediamo apparire sullo schermo), ma senza elaborare a dovere i vari elementi, passando di momento in momento con una brutalità che non convince neanche a leggerla come scelta (la scena di sesso tra Pietro ed Eleonora è una chiave di volta degli eventi, ma non solo non è dato saperne il perché – ci può stare -, non è proprio dato intuirne la significatività e il rilievo). Se poi il film tenta a tratti di coniugare dramma e commedia (cosa sempre difficile nel nostro cinema di codici blindati, in cui la mescola di toni provoca frizioni spesso e volentieri), con un pizzico di surrealtà che è il dato più interessante della pellicola, non di rado si perde nel lirismo posticcio: come detto, le sequenze più libere e movimentate si affermano come la cosa più riuscita del film, quelle in cui la musica - Rufus Wainwright, i Radiohead di Pyramid song, omaggio diretto al libro (nel romanzo il protagonista pensa che le canzoni dei Radiohead raccolte dalla moglie in un cd gli inviino dei segnali, gli consiglino come agire etc) - si sposa bene, ma anche facilmente, alle immagini.
Naturalmente parlare del film di Grimaldi, che di suo ci mette una regia anonima fino all’invisibilità, significa, parlare di Moretti: non ci riferiamo solo alla sua presenza attoriale, ma anche alla sua partecipazione all’adattamento, elemento che rivela il ruolo centrale che il Nostro ha nel progetto. Che Moretti, dal punto di vista interpretativo, non sappia far altro che riprodurre se stesso è cosa risaputa, meno ovvio (e francamente interessante) è che decida scientemente di mettersi in scena secondo tale modello anche in un film che, come questo, sulla carta non lo richiederebbe: in tal senso la doppia partecipazione (attore, sceneggiatore) sembra da un lato rivelare una necessità (in virtù della quale Pietro diventa Moretti-e-la-sua-maschera, non il contrario), dall’altro imporre una caratteristica e una chiave di lettura all’opera (“morettiano” diventa il film). E allora, tanto per fare due esempi di marca differente, 1) la considerazione sul cinema italiano che fa il suo personaggio si rende come sorta di firma in calce al lavoro, e 2) anche quello che è un elemento tratto dal romanzo – le liste, qui sciorinate in voice over – finisce con l’apparire e suonare coerentemente come “suo”. Moretti fa Moretti, dunque, scava una nicchia all’interno di un film che in quella veste non lo contemplerebbe, costruisce un livello altro: che sia per necessità o per teoria cosciente poco importa, stante la considerazione che questa interpretazione creativa del personaggio si pone come elemento “pesante” che prevale sugli altri, costituendone una sorta di persuasivo collante. E' proprio in questo essere in bilico tra la forza che l'immagine morettiana indubbiamente emana (a ragione o torto Nanni è l'unica icona cinematografica che l'Italia oggi può vantare – Monica Bellucci permettendo -) e l'evidente glissare la questione mica secondaria dell'interpretazione, che il film afferma il suo tono peculiare: Moretti ha l'indiscutibile merito di caratterizzare il protagonista riscattandolo, meritoriamente, dal classico appiattimento sul modello banalmente psicologico cui i nostri autori ci hanno abituati. Moretti dà senso e sostanza a Pietro Paladini, insomma, e non attraverso la consueta ostentazione del bolso repertorio di segni espressivi da cinemino italiano, quelli diretti a suggerire a chi guarda l'esistenza di un'interiorità (si ritiene che tale pratica conferisca realismo, laddove trattasi di evidente artificio scenico, del tutto antinaturalistico) ma attraverso il dispiego di un bagaglio personale, anche extratestuale, che il regista-attore riesce a ricondurre piuttosto naturalmente al carattere che incarna.
Tra Moretti che moretteggia (nel senso buono) e l’apparizione a sorpresa di Roman Polanski, la partita degli interpreti “veri” viene vinta da Alessandro Gassman (che otterrà premi in quantità) e Valeria Golino (amo Valeria Golino, si sa).
Non sappiamo dire perché Moretti si sia di nuovo ritrovato in prossimità di un film sul lutto e le sue elaborazioni, al plurale perché il freudiano Trauerarbeit (il termine lutto è femminile in tedesco, per felice coincidenza) è un processo psicologico troppo tortuoso e intermittente per poterlo singolarizzare, non sappiamo neanche perché i film sui lutti da elaborare (ci) risultino così pedanti e così maldestramente somigliantisi, anche se poi quando si cerca di richiamare alla mente La stanza del figlio c’è il rischio di fare accostamenti inopportuni con il film di Grimaldi e magari di avere la sorpresa di riconoscerli reciprocamente sconosciuti, certo è che Caos calmo fortunatamente e suo malgrado oltre alla banale sconcezza di alcuni approdi, anche se pervenuti a partire da una situazione infantile, tipo l’irreversibilità della morte (i palindromi), mette in scena un ragionamento “locativo”, spaziale, sul disordine mentale provocato dal senso di perdita, del qualcosa o del qualcuno. L’inquietudine del protagonista (anche del romanzo omonimo di Veronesi) Pietro Paladini in seguito alla mancata occasione di sofferenza blocca il momento di elaborazione in un limbo che ha la forma circolare di un giardino antistante la scuola frequentata dalla figlia. Questo perimetro diviene il luogo geometrico delle traiettorie psicologiche che regolano i rapporti tra Pietro e il mondo, si trasforma in teatro privato quasi spiato dalla m.d.p. in cui rappresentare l’elaborazione nella sua quotidianità, nell’interferenza poligonale tra Pietro, i vari personaggi nella loro interazione attiva (fratello, cognata, maestra, bambino che saluta, ragazza col san Bernardo, etc. - campo/controcampo) o passiva (le varie figure di sfondo che popolano il giardino - totali) e l’ambiente che li ospita. Tale spazio diventa recinto dell’organizzazione psichica in virtù della quale Grimaldi coglie il suo personaggio nel tentativo di normativizzare l’entropia interiore tramutandola gestalticamente in riconoscibilità formale. La panchina, l’auto posteggiata, il baretto, la finestra dell’aula in cui la figlia fa lezione, vengono identificati come punti di riferimento per orientarsi attraverso la situazione di un vissuto disordinato, le distanze che separano tali nuovi punti cardinali sono bisettrici che regolarizzano il suo inedito microcosmo. Dare ordine al caos: questa è la prima regola sintomatica di una patologia nevrotica in atto. La tendenza alla catalogazione, atteggiamento che denuncia antiche nevrosi morettiane a dire il vero, ne è un ulteriore segnale patogeno. Lo sguardo di Grimaldi sembra estremamente attento alla registrazione di questi movimenti nell’accadere psichico del protagonista, così come quando intende didascalicamente mettere in evidenza le ombre (sequenze all’interno dell’appartamento) distanziandolo dalla scontata solarità del fratello. L’universo scompaginato dalla morte della moglie, della quale non sappiamo alcunché se non qualche residuo esistenziale depositato distrattamente nell’appartamento (una copia di Lunar Park di Ellis, qualche mail probabilmente fedifraga e poco altro) o nei ricordi di Pietro e Marta (la cognata), deve tornare a una ricomposizione. Il dolore, trasfigurato anche come senso di colpa e desiderio di espiazione, o di punizione (e in questo caso sembra applicarsi la dinamica transferale per cui Pietro punisce piuttosto la donna che quel giorno ha salvato “al posto della” moglie, mediante un rapporto sessuale che sembra più un aggressione, espediente che funge anche da scuotimento dal torpore) rimane intrappolato nella circolarità psicologica e spaziale della coazione a ripetere, come apatia, come eterno ritorno dell’in-differente inscritto in maniera, appunto, indifferenziata in quello stesso cerchio le cui leggi potrebbero essere demandate anche a una qualche entità esterna superiore: una formula magica che introduca il principio di reversibilità nelle cose (il mantra esoterico sator arepo tenet opera rotas), una deità della tradizione monoteista o trinitaria, come nel modello ebraico o cristiano-cattolico che regga le sorti di quel mondo al posto suo, di cui Pietro sembra declinarne la responsabilità, come nel rapporto disparitario che intrattiene con i colleghi di lavoro e con gli eventi riguardanti quella sfera. Quadro apparentemente lineare che però può essere sconquassato anche dal semplice suono di una bestemmia, evento di linguaggio che nella pesante tinta espressiva tende a destrutturare la comunicazione, e tende altresì con la sua carica “negativa” a mettere in crisi il piano metafisico cui è stato ipoteticamente delegato il governo del mondo. Si ritorna dunque al quieto avviluppante rassicurante caos della panchina, della scuola, degli abbracci etc. Un circolo vizioso spezzato dal recupero autentico del rapporto con la figlia, da una messa in comunicazione senza infingimenti e ipocrisie, un po’ alla Raffaele Morelli, per cui Pietro può finalmente abbandonare il giardino e liberare la sua sofferenza. Procacci, Grimaldi, Moretti..continuiamo così...