“Raffaello diventò famoso perché dipingeva le cose come sono”. Quando arrivano queste parole, messe in bocca a uno ‘ndranghetista qualsiasi mentre il film si avvia verso la risoluzione, lo spettatore ha già capito da tempo che dello pseudo-realismo di certi (molti, ahinoi) film italiani contemporanei, con la cinepresa che ballonzola e le nuche da pedinare, a Jonas Carpignano non interessa granché. Anzi, se ne fa beffe apertamente.
Carpignano insomma ha capito benissimo quali siano i limiti del genere implicito in cui si trova ad operare (il “nuchismo” pseudodocumentario di cui sopra), e questo gli ha permesso di riuscire a superarli con successo. Ha capito, insomma, che questo pseudorealismo deve, intrinsecamente, appoggiarsi a ingombranti e spesso imbarazzanti pezze d’appoggio di sceneggiatura, e che dunque si tratta di trovare il modo di romperle, o quantomeno di eccederle. La strategia mobilitata da Carpignano a tal proposito è chiara: l’onirismo. Se iperscrittura ha da essere, allora ben venga un modulo di scrittura a cui i suoi colleghi, quelli che occupano la sua stessa (spesso infausta) nicchia cinematografica, ricorrono troppo raramente: l’onirismo.
Naturalmente non si tratta solo del fatto che Chiara, quindicenne di Gioia Tauro che comincia a scoprire che l’intero mondo in cui vive si appoggia su dinamiche criminali lontane dagli occhi (traffico di droga transnazionale agevolato dalla ‘ndrangheta etc.), faccia dei sogni a posteriori decisivi nello sviluppo della trama. Si tratta invece, soprattutto, del lasciare che le forzature dei meccanici concatenamenti narrativi “alla premio Solinas”, che pure nel film sono presenti (i più ingombranti dei quali Carpignano confina saggiamente nella prima e ultima scena), vengano eccedute da forzature ancora più stridenti che però rispondono a una logica ferrea: quella del sogno. Chiara impara che il mondo in cui vive si appoggia interamente sulla sua parte nascosta, un illecito “inconscio” economico rimosso che, come l’inconscio, ha una sua precisa topologia (il bunker sotto casa), e sintomi che affiorano alla superficie: le gru del porto, su cui Carpignano torna insistemente per sottolineare la dimensione segretamente globale di quel mondo apparentemente provincialissimo. Ma anche la stessa comunità nomade a fianco di Gioia Tauro, già vista nel precedente A ciambra, è un sintomo analogo, essendo una sorta di specchio rovesciato della denegata componente globale della comunità calabrese cui appartene Chiara. Se dunque Chiara butta un petardo in faccia a una nomade non è certo per razzismo, ma perché la logica puramente onirica del racconto vuole che Chiara se la prenda con l’opacità dei sintomi, testimonianze ineludibili dell’esistenza di un mondo sommerso ma che non “dicono” nulla più di così. Essi, in altre parole, non prescrivono quale debba essere il posto che Chiara deve occupare tra un mondo e l’altro, ed è questo a rendere la sua frustrazione intollerabile, perché così si trova obbligata a scegliere, sospesa tra un mondo e l’altro senza che lei possa né voglia rinunciare ad alcuno dei due – non foss’altro che per il desiderio che il padre latitante, che lei continua ad amare, faccia finalmente il padre. Desiderio che la porta, ancora per una logica puramente onirica, a diventare psicoticamente il padre nel momento in cui la separazione si profila come inevitabile.
Gli esempi potrebbero continuare a lungo. Il punto, in ogni caso, è che questo tipo di logica informa ogni piega del racconto, a propria volta nascosto nelle pieghe sintomatiche di un approccio filmico efficacemente descrittivo – quello dispiegato in piena forza dall’iniziale scena della festa dei diciott’anni, in cui una marea di dettagli descrittivi lasciano trapelare, qua e làma sempre nei margini appena percettibili, la sostanza di ciò che sarà il racconto (ad esempio: l’incapacità del padre di essere padre) senza porsi veramente come “azione”. Facendoci prendere confidenza con questa logica, e facendoci aderire alla prospettiva di qualcuno che, come Chiara, si trova implicata nel sogno che crede di guardare dall’esterno, il film di Carpignano usa Gioia Tauro come sineddoche di tutto il mondo globalizzato, un mondo nonostante tutto ancora strutturato come un inconscio, con una articolazione tra piani sovrapposti che viene negata e confermata allo stesso tempo dai rituali ossessivi attraverso cui la superficie celebra l’apparenza come se fosse l’unica realtà esistente. È in questa chiave che va letta la piccola antropologia dei boss piccoli e grandi, delle mogli variopinte e quant’altro. Su questo sfondo, Carpignano ha l’ambizione, sorprendentemente riuscita, di ricordarci che il sogno più cieco è quello di credere di vivere in un mondo che è riuscito con successo a rimuovere con successo l’altro mondo. Il sogno, cioè, di credere di essere svegli.