CARTOLINA DA CANNES 74 – BENEDETTA CROISETTE

E poi giunse Benedetta. È da un anno, assieme a Tre piani di Nanni Moretti e a The French Dispatch di Wes Anderson, che il film di Paul Verhoeven è atteso sulla Croisette. Fa parte di quel pacchetto che Frémeau ha impérativement ficcato nel freezer personale per scongelarlo al momento giusto. Che è questo: quello del festival più importante del mondo giunto all’edizione numero 74 (la 73 è quella che non si è tenuta a causa del Covid e che si fa come se ci fosse stata, perché i traumi si superano così, con la brutale rimozione). Attesa giustificata? Guardiamo la critica mondiale che, al di là di alcune stroncature (fisiologiche, per un titolo che nasce sanamente divisivo), risponde piuttosto bene: Libération inneggia, RogertEbert.com pure, Hollywood Reporter non ne parliamo, il Telegraph dice wow. Qualche freddezza (Variety) e poche, ma convinte stroncature (Guardian, Positif, Figaro). Non riesco a schierarmi su nessuno degli opposti fronti, mi sembra un film che propone un discorso consueto per l’olandese, in una nuova veste, con tutto il corredo metaforico che allude ai meccanismi della messa in scena e della spettacolarizzazione (più volte mi è sovvenuto in mente The Baby of Mâcon di Peter Greenaway che dietro il masque metteva in campo tematiche che attenevano all’etica nella comunicazione dei media e che per farlo usava i temi del sacro e del profano, dell’ortodossia e della blasfemia), sulla falsariga di un Eva contro Eva (e quindi Showgirls) e in una cornice da fiction storica (e quindi Black Book).

Nel XVII secolo, mentre la peste si propaga in Italia, Benedetta Carlini entra nel convento di Pescia in Toscana. Fin dalla più tenera età, Benedetta è capace di fare miracoli e la sua presenza cambierà molte cose nella vita della comunità religiosa. Il tutto è narrato con le consuete tinte forti, a tratti studiatamente trash, con visioni quasi kenrusselliane a épater le bourgeois che di épater forse, oggi come oggi, non finge neanche più. Persino se una statuetta della Madonna si trasforma in dildo o il Gesù crocifisso è spogliato per mostrare un’inattesa vulva. Trovate forse troppo calcolate per sconvolgere davvero. Cose che, da ultimo, fa spesso Bruce LaBruce, ma senza nessuna vera ambizione a solleticare prurigini, quanto per puro divertimento erotico e all’interno di prodotti più indipendenti e scaciati. In questo senso mi è parso un film fuori tempo massimo, a tratti molto divertente, ma colpevolmente dilatato, programmaticamente proteso a mantenersi ambiguo sul carattere della protagonista (abile manipolatrice o mistica illuminata?) e su quanto avviene (miracoli o suggestioni?). E con una visione della donna in ammiccante bilico (la discussione è aperta). Virginie Efira è, peraltro, un’altra seria candidata alla palma per l’interprete femminile.
Ma se ne parlerà meglio e di più, ovviamente.