TRAMA
Yun-ju, inetto ricercatore universitario, sfoga le sue frustrazioni rapendo e uccidendo i cani del condominio dove abita. Nel frattempo la giovane e determinata Hyun-nam indaga sulle misteriose sparizioni. Le vite dei due si intrecceranno nei modi più stravaganti.
RECENSIONI
Guardando – o, per i più fortunati, riguardando – Cane che abbaia non morde, opera prima di Bong Joon-ho, ci si rende conto che lo stile, i temi, l’estetica del regista erano già tutti lì, in attesa di essere scoperti. Serviranno in effetti in occidente quasi vent’anni, con l’exploit di Parasite (2019), e stanti i passaggi poi solo retroattivamente riconosciuti (“ah, ma erano suoi? Non lo sapevo!”) di Snowpiercer (2013) e Okja (2017), per dare a Bong ciò che è di Bong. Piccolo gioiello, o forse piccolo scrigno sudcoreano, il film d’esordio imposta con chiarezza l’isotopia dramedy che sarà uno dei comuni denominatori della filmografia del regista, dal secondo e notevole Memories of Murder (2003) fino all’inflazionato Parasite, con le deviazioni comunque coerenti verso la fantascienza più o meno distopica (non solo Snowpiercer e Okja, ma anche il commovente The Host, 2006), o il thriller Madre (2009) in cui l’elemento comico cede il passo a una sorta di crudités dei sentimenti umani più ombrosi. Cane che abbaia non morde è dunque l’incubazione, nel doppio senso di anticamera di ciò che sarà ma pure di luogo del sogno oscuro, di quei nodi sensibili che Bong affronta di volta in volta con angolazione diversa. La forbice di una società divisa fra abbienti e abbandonati è qui rappresentata da un affascinante condominio-mondo, microcosmo in cui si articolano storie di singoli che faticano a emergere e a trovare un posto in un mondo sovrastante e ingiusto. Yun-ju, ricercatore universitario, ambisce a un posto da professore associato ma non può che accedervi sacrificandosi a corrompere l’ordinario di turno. La sua amareggiata compagna viene licenziata poiché incinta. La giovane Hyun-nam lavora per l’amministrazione del condominio e nutre umili sogni di gloria (acciuffare qualche piccolo criminale di quartiere, quanto basta per finire nel notiziario locale). La sua fidata amica Jang-mi passa le giornate a fumare nel misero negozietto di cui è commessa, ogni tanto rifugiandosi sul rooftop per guardare alla montagna come massimo orizzonte di catarsi.
L’arco dei personaggi così ritrae uno spaccato neorealistico, declinato secondo una trama brillante e una regia già matura e convincente, tanto nella messinscena (si affastellano campi totali raramente poetici, capaci oggi, complice una certa grana della pellicola dell’epoca, di generare una peculiare nostalgia), quanto nei movimenti e in alcune concessioni a oggettive-soggettive oniriche particolarmente seducenti. Pensiamo in questo caso alle fantasie di Hyun-nam materializzate nel profilmico come una folla di astanti con l’impermeabile giallo, in visibilio quando tenta di sventare il massacro del cane sul tetto, o ancora a quando la stessa si immagina sul TG come ripresa da una videocamera di sorveglianza (non solo quindi abbiamo accesso alla sua immaginazione, ma anche a una specifica mediazione visiva di quest’ultima). Di contro esplode la durezza palpabile della realtà nelle scene sulla metropolitana, in cui la giovane si addormenta sfinita mentre una mendicante ammalata con figliolo appresso lotta contro l’indifferenza dei passeggeri. Cane che abbaia non morde è dunque l’impietoso quadro, o quadretto, del conflitto fra ambizioni – financo tenere (i nostri scenari di grandiosità sono anch’essi, ahinoi, filtrati dalle nostre effettive condizioni di partenza) – e possibilità. Questa tensione si gioca nel territorio di un mistero grottesco: la progressiva scomparsa di cani dal complesso urbano. Rapiti e uccisi non solo da Yun-ju, ossessionato dal loro abbaiare, ma anche dal custode e da un clochard costretto a vivere nei sotterranei, che li trasformano in spezzatino e se li mangiano di nascosto (dove? Beh, negli scantinati o sopra il tetto, secondo quella verticalità politicamente orientata poi riesplorata proprio in Parasite).
È qui che Bong, con toni apparentemente leggeri, dimostra anche un certo coraggio. Se ci pensiamo un attimo, sembra vigere attorno ai cani un certo tabù nel cinema. Se ne parla, ma quasi sempre con una certa affezione. Se il cinema atlantico ha ragionato sulla questione con film quali Disastro a Hollywood (Barry Levinson 2008), in cui viene esplicitamente tematizzata l’interdizione dell’uccisione dei cani al cinema, con la bestiolina ammazzata da cui comincia l’epopea sanguinaria di John Wick (Chad Stahelski 2014), o ancora con la scombiccherata banda di criminali di 7 psicopatici (Martin McDonagh 2012) in cui figura un rapitore di cani che poi li rende sotto riscatto o attraverso le bislacche vicende di Dolph Singer in Wrong (Quentin Dupieux 2012), Cane che abbaia non morde aveva già posto in essere la questione nel 2000 attraverso le sventure dell’inetto Yun-ju, sorta di Marcello di Dogman (Matteo Garrone 2018) al contrario (lui ammazzava i suoi personali “bulli” curandosi dei cani, il Nostro ammazza i cani e foraggia i “bulli”), con tanto di disclaimer a inizio film che avverte circa la buona salute di tutti gli amici a quattro zampe impiegati nella sua realizzazione. Gli stessi, vittime colpevoli solo di abbaiare (e alle volte neanche quello visto che il primo a essere rapito scopriremo avere le corde vocali recise), che vedremo rinchiusi negli armadi, sgozzati, lanciati dai palazzi, impiccati, e poco ci manca pure impalati con uno spiedo. Tutto non senza un certo – morboso? – divertimento, che nelle ultime battute, quando gli allarmi saranno rientrati e le situazioni si saranno risolte, lascerà definitivamente spazio a un senso di luttuosa impotenza. Perché a essere ostinatamente mediocri potremmo dire che Cane che abbaia non morde “fa ridere, ma anche riflettere”, ma forse invece è esattamente il contrario: fa riflettere, ma anche ridere.
