Drammatico

CAMILLE CLAUDEL 1915

Titolo OriginaleCamille Claudel 1915
NazioneFrancia
Anno Produzione2013
Durata95'
Sceneggiatura

TRAMA

Inverno 1915. Internata in una casa di cura nel sud della Francia, Camille Claudel non può più scolpire. Vorrebbe tornare ad esercitare la sua arte, ma nessuno, a cominciare dal fratello Paul, sembra intenzionato a volerne assecondare il desiderio.

RECENSIONI

Ancor prima che donna ostracizzata perché donna e artista che ha avuto il torto di sfidare l’Istituzione-Auguste Rodin, Camille è un enigma che scruta, grida, piange. Sola. Un anno, il 1915, distante dalle passioni e dai tumulti narrati da Bruno Nuytten e vissuti da Isabelle Adjani nel classicamente biografico film del 1987. Rigettata, reclusa, questa Camille Claudel non ha più niente da vivere. Sconta il vissuto e scolpisce la natura con lo sguardo. Il suo isolamento, simbolicamente quasi ovvio per le ragioni di cui sopra, non lo è dal punto di vista narrativo. Perché continuare a frustrare il desiderio dell’artista di tornare a creare, a forgiare? A contatto con altre marginalità, Camille scopre non soltanto quanto e come la società annichilisca ogni forma di alterità non categorizzabile, stigmatizzandola come follia da reprimere e emendare, ma quanto e come essa legittimi strumentalmente forme di psicosi tollerabili perché funzionali e produttive. Come quella del fratello Paul, il cui Dio onnipotente è più amante che amato, più ossessiva e mentale presenza che silenziosa, e pascaliana, assenza.

Al suo primo film con un’attrice professionista francese in tête d’affiche (Juliette Binoche), Bruno Dumont cesella un anti-biopic giansenista e apsicologico, tra il più volte evocato Robert Bresson e il Maurice Pialat di Sotto il sole di Satana e Van Gogh: la contemplazione rigorosa di un volto che esprime un dolore indicibile; lo stridente conflitto tra un artificio naturalizzato (la recitazione al tempo stesso trattenuta e esplosiva della Binoche) e un’umanità colta nella sua terribile “naturalezza“. La grande forza del film risiede proprio in questo: nella relazione disforica che si dispiega fin da subito (senza spiegare e “piegare“) tra drammaturgie, situazioni e stati differenti. Da un lato, l’attrice riconosciuta e il suo personaggio storico riconoscibile, anche se in parte disidentificato. Dall’altro, il popolo dei malati, dei “pazzi“, dei marginali: gli autentici abitanti di una casa di cura. La messa in relazione di questi due universi, l’uno pienamente funzionale, anche se non riconciliato e non riconciliante, l’altro pulsante e capace di liberare una “realtà” di destabilizzante evidenza, crea un corto circuito semantico che è il cuore pulsante del film e, forse, di tutto il cinema di Dumont.

E il corto circuito sprigiona una generale impressione di “verità” su un personaggio che è al tempo stesso storico (incorniciato storicamente dal titolo e dalla didascalia finale) e transtorico, in grado di rigettare ogni appellativo, ogni etichetta, le pesanti vesti dell’Artista-Donna per indossare quelle mitiche di capro espiatorio. La Claudel di Dumont/Binoche è una presenza le cui lacrime dicono parole non univoche; è un corpo appesantito da un fardello imponderabile, un occhio che scruta, osserva, un volto che si abbandona a piaceri minimali: il calore del sole che attenua il pallore, nel cortile della casa di cura; il vento che anima le fronde degli alberi e suggerisce a quell’essere (rin)chiuso che la natura è l’ultimo rifugio dei reietti. Nell’impossibilità di forgiare nuove forme marmoree, Camille continua, nonostante tutto, a creare, scolpendo il tempo con lo sguardo. Sublime paradosso: lei che fissò il movimento dei corpi, si ritrova immobilizzata a cercare di bloccare il dolce movimento delle cose.