TRAMA
Inverno 1915. Internata in una casa di cura nel sud della Francia, Camille Claudel non può più scolpire. Vorrebbe tornare ad esercitare la sua arte, ma nessuno, a cominciare dal fratello Paul, sembra intenzionato a volerne assecondare il desiderio.
RECENSIONI
Ancor prima che donna ostracizzata perché donna e artista che ha avuto il torto di sfidare l’Istituzione-Auguste Rodin, Camille è un enigma che scruta, grida, piange. Sola. Un anno, il 1915, distante dalle passioni e dai tumulti narrati da Bruno Nuytten e vissuti da Isabelle Adjani nel classicamente biografico film del 1987. Rigettata, reclusa, questa Camille Claudel non ha più niente da vivere. Sconta il vissuto e scolpisce la natura con lo sguardo. Il suo isolamento, simbolicamente quasi ovvio per le ragioni di cui sopra, non lo è dal punto di vista narrativo. Perché continuare a frustrare il desiderio dell’artista di tornare a creare, a forgiare? A contatto con altre marginalità, Camille scopre non soltanto quanto e come la società annichilisca ogni forma di alterità non categorizzabile, stigmatizzandola come follia da reprimere e emendare, ma quanto e come essa legittimi strumentalmente forme di psicosi tollerabili perché funzionali e produttive. Come quella del fratello Paul, il cui Dio onnipotente è più amante che amato, più ossessiva e mentale presenza che silenziosa, e pascaliana, assenza.
Al suo primo film con un’attrice professionista francese in tête d’affiche (Juliette Binoche), Bruno Dumont cesella un anti-biopic giansenista e apsicologico, tra il più volte evocato Robert Bresson e il Maurice Pialat di Sotto il sole di Satana e Van Gogh: la contemplazione rigorosa di un volto che esprime un dolore indicibile; lo stridente conflitto tra un artificio naturalizzato (la recitazione al tempo stesso trattenuta e esplosiva della Binoche) e un’umanità colta nella sua terribile “naturalezza“. La grande forza del film risiede proprio in questo: nella relazione disforica che si dispiega fin da subito (senza spiegare e “piegare“) tra drammaturgie, situazioni e stati differenti. Da un lato, l’attrice riconosciuta e il suo personaggio storico riconoscibile, anche se in parte disidentificato. Dall’altro, il popolo dei malati, dei “pazzi“, dei marginali: gli autentici abitanti di una casa di cura. La messa in relazione di questi due universi, l’uno pienamente funzionale, anche se non riconciliato e non riconciliante, l’altro pulsante e capace di liberare una “realtà” di destabilizzante evidenza, crea un corto circuito semantico che è il cuore pulsante del film e, forse, di tutto il cinema di Dumont.
E il corto circuito sprigiona una generale impressione di “verità” su un personaggio che è al tempo stesso storico (incorniciato storicamente dal titolo e dalla didascalia finale) e transtorico, in grado di rigettare ogni appellativo, ogni etichetta, le pesanti vesti dell’Artista-Donna per indossare quelle mitiche di capro espiatorio. La Claudel di Dumont/Binoche è una presenza le cui lacrime dicono parole non univoche; è un corpo appesantito da un fardello imponderabile, un occhio che scruta, osserva, un volto che si abbandona a piaceri minimali: il calore del sole che attenua il pallore, nel cortile della casa di cura; il vento che anima le fronde degli alberi e suggerisce a quell’essere (rin)chiuso che la natura è l’ultimo rifugio dei reietti. Nell’impossibilità di forgiare nuove forme marmoree, Camille continua, nonostante tutto, a creare, scolpendo il tempo con lo sguardo. Sublime paradosso: lei che fissò il movimento dei corpi, si ritrova immobilizzata a cercare di bloccare il dolce movimento delle cose.