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TRAMA
Marc Stevens è un cantante girovago. Al ritorno da un ospizio dove si è esibito, rimane bloccato sotto la pioggia e trova rifugio in un albergo nel bosco. E’ l’inizio di un vero calvario._x000D_
RECENSIONI
Al suo esordio, Fabrice Du Weltz, mettendo in chiaro rilievo derivazioni e riferimenti (Psycho, L'ultima casa a sinistra, ma non solo), inanellando situazioni e topoi riconoscibili fino al cliché, sviluppa d'altro canto un discorso personale, dimostrando una ragguardevole potenza di sguardo. Poggiando l'opera su un registro visivo curatissimo (l'operatore è l'oramai riconoscibile Benoît Debie), in una resa mai estetizzante dello squallore, Calvaire segue il percorso del suo protagonista (un Laurent Lucas che lascia il segno) con straordinaria resa espressiva secondo un registro iperrealista (nessun espediente ad effetto, nessuna caduta nella metafisica gratuita) e antididascalico che ricorda il Dumont più spietato e in cui il dato significativo è la messa in scena di una realtà (tutta al maschile) a se stante (il ballo nella locanda, sorta di allucinato rito tribale, è quanto di più disturbante si sia visto di recente in pellicola). In questo senso l'incipit in (studiatissimo) tono minore, ma in cui i dati inquietanti e la considerazione del protagonista come oggetto sessuale risulteranno chiari prodromi degli sviluppi depravati successivi, è segnale evidente dell'abilità dell'autore nella costruzione di una tensione che conoscerà momenti quasi intollerabili.
Viaggio in un mondo disperato e trasversale, ma pericolosamente confinante con quello della normalità, in cui l'uomo è un selvaggio e la libido è una bestia allo stato brado, Calvaire è un film sorprendente, in cui il genere è soltanto un riferimento, le sue qualità prescindendone, e le cui immagini parlano di un autore dallo stile già maturo, assolutamente da seguire.