TRAMA
Dopo un tragico incidente che le ha ucciso il figlio e martoriato il corpo, la dolorosa routine quotidiana di Claire, ex avvocato di successo, è scandita dalla dipendenza dagli antidolorifici e dall’idea, pulsante fino all’ossessione, del suicidio.
RECENSIONI
In una bella poesia di Sylvia Plath («I am vertical/ But I would rather be horizontal...») l'io poetico, osservatore escluso della vitalità grandiosa e ardita della natura, anela all'orizzontalità eterna che sola schiude alla bellezza di quel mondo. L'orizzontalità messa in scena da Cake, invece, come realtà del dolore che attanaglia corpo e spirito, rimanda unicamente il riflesso del volto sfregiato della protagonista Claire (Jennifer Aniston), per la quale l'essere distesa è una costrizione anzitutto fisica, è carne straziata dai ferri innestati nella ferita aperta dalla tragedia. Autoconfinata nella propria casa-rifugio, Claire si aggira come un relitto, da una parte immagazzinando rimorso e rabbia, dall'altra svuotando, insieme ai flaconi di pillole, le proprie stanze effettive e affettive (nel suo salotto campeggia l'alone lasciato sulla parete dalla foto del figlio rimossa; dona ad amanti occasionali i giocattoli del bambino; si separa dal marito amorevole che vorrebbe prendersi cura di lei), accudita unicamente dalle attenzioni della protettiva domestica messicana Silvana, lar familiaris speculare allo spettro della suicida Nina che assedia i suoi sogni.
Presentato al festival del cinema di Toronto e nominato ai Golden Globes (miglior attrice protagonista in un film drammatico), il piccolo (nel budget) film di Barnz è il racconto intimistico di un'America infestata dal dolore, dalla perdita e da pulsioni autodistruttive, filtrati attraverso un corpo femminile depredato e mutilato, e ripreso in un atto di resistenza estrema come volontà di sopravvivenza. Il tema del suicidio, il motivo del confine mentale e fisico (realtà/sogno, fuori/dentro, casa/strada, USA/Messico) come luogo di passaggio lungo il quale scardinare dinamiche mortifere della marginalità e ripristinare inedite ed essenziali alleanze del femminile, ritornano in alcune recenti narrazioni hollywoodiane che interrogano corpi e archetipi simili e raccontano percorsi analoghi di eroine "furiose", la cui lotta sofferta e a tratti rovinosa non solo arriva a decretare la fine di istanze solipsistiche e tombali, ma anche a immaginare (la salvezza in questi film appartiene al fuori campo) un'autentica alternativa di speranza: dall'ultimo ritrovato d'amore lasciato dalla madre alla figlia che resiste all'assalto del nulla in Still Alice, al raggiungimento di un'immagine positiva del Sé, custode di quella materna, oltre la wilderness scatenata dall'abbandono in Wild; dall'ascesa che incorona la ribellione di Furiosa e delle altre madri contro la mascherata bellicosa e orripilante del maschile che devasta la terra in Mad Max: Fury Road, alla verticalità riguadagnata in Cake con un gesto estremo come una rinascita, foriera dello sguardo che interpella l'altro, dopo che la protagonista ha congedato il fantasma del suicidio con il ricordo di essere stata «una buona madre».
Jennifer Aniston (qui anche executive producer) è sorprendentemente brava: non solo smorza gli abituali tic attoriali dei suoi ruoli comici, ma convoglia la rabbia e il dolore del personaggio trattenendo la voce (nella versione originale) sul filo del baratro, togliendo e distogliendo movimenti e sguardi, fino a lasciare che la complessità della morte in fieri come vita nonostante tutto affiori direttamente dal corpo e dalla gestualità ancorati al dolore. Così è un peccato che il film non resti incollato alla sua protagonista: perché quando cerca la via di una simbologia affettata, quando apre a fastidiosi siparietti onirici che ci dicono meno della dipendenza dal dolore di una qualsiasi delle cicatrici di Claire, quando le affianca personaggi di contorno del tutto accessori, come una torta un po' sconclusionata mostra inevitabilmente i suoi limiti.