Drammatico, Recensione, Western

CACCIA SPIETATA

Titolo OriginaleSeraphim Falls
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2006
Genere
Durata116'
Fotografia

TRAMA

Finita la Guerra di Secessione un conto rimane in sospeso. Il nordista Gideon è braccato dal sudista Carver in una caccia all’uomo guidata da un forte spirito di vendetta… quale oscuro passato lega i due ex-militari?

RECENSIONI

Un western mentale, dettato dai tempi interiori dei personaggi Gideon e Carter, due figure “sovraumane” ai limiti dell’Epica, che cristallizzano il tema della vendetta al di là del mero costrutto ideologico/politico per piombare come exempla della condizione umana. L’odio viene instradato in quella che possiamo considerare una componente imprescindibile dell’animale, istinto brutale, quasi meccanico, di un nichilismo che diventa impulso dogmatico del reale. Un punto di partenza intrigante, “atipico” (relativizzando la saturazione filmica), soprattutto nella ricerca stilistica di Von Ancken, ai limiti di un’esasperazione virtuosa che cerca famelicamente una distinzione di marca. Il tutto seguendo una dilatazione narratologica che punta alla sospensione, di un’artificiosità spiazzante, ove il presupposto estetico diviene dittatura di qualsivoglia penetrazione interpretativa. E pensare che l’impegno traspare con amore: l’apertura ci presenta il fuggitivo braccato in totale sinergia con il contesto nel quale è collocato. Non una parola, non un’esplicazione, ma unicamente la sofferenza proiettata su un paesaggio glaciale e distaccato. I piani slittano e si separano, in una totale divisione tra la componente “mitica” ( vittima/carnefice; concetto facilmente ribaltabile) e la cornice contenitrice. L’esterno diventa proiezione di un’arsura emotiva e priva di vita. Il ghiaccio prima, il deserto sfracellato dopo: il fondale si erge come ridondante contrappunto alla condizione psichica dei protagonisti. Un film troppo pensato, dove la decostruzione del ritmo ad opera di un asfissiante gioco visivo-compositivo, si pone come prospettiva d’insicurezza. La “distinzione”, l’autor ( da intendere nella sua componete più negativa) ha premura nel farsi riconoscere. I risultati quindi sono più che intuibili: totale distacco emotivo (da non fraintendere come riflessione critica); insistenza disarmante che coinvolge pochi aspetti dell’opera (struttura del profilmico baroccheggiante che sa di esercizio accademico, looping temporale/spaziale fine a se stesso) ma ne tralascia altri (dialoghi di asfissiante grettume, totale superficialità nella psicologia dei personaggi); volontà incontrollabile di precipitare nell’intellettualismo (simbolismo finale ove le due pulsioni di Ordine/Disordine, Male/Bene – come vi pare- vengono incarnati da due maschere anacronistiche che sanno di didascalismo – cfr la Huston venditrice ambulante luciferina). Non serve inoltre tenere all’oscuro la prospettiva spettatoriale sul legame che interlaccia i due personaggi, se poi il tutto viene illuminato da un flashback di patetismo confezionato e banale ribaltamento cromo-fotografico (avete presente l’uccisione della famiglia nel Gladiatore?), per poi indirizzare il tutto in uno speranzoso messaggio pacifista ove Greed (parlo di Von Stroheim, ebbene sì) perde la propria connotazione pessimista. E se vogliamo insistere… lo zibaldone di soggettive tremolanti, campi lunghi inframezzati da dissolvenze incrociate e primi piani di un frigido spessore, il tutto si allontana nevroticamente.
Troppa “mano”. Poco “concetto”.