Commedia, Recensione

C.R.A.Z.Y.

Titolo OriginaleC.R.A.Z.Y.
NazioneCanada
Anno Produzione2005
Genere
Durata125'
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Zac Beaulieu, nasce il 25 dicembre 1960. È diverso da tutti i suoi fratelli e vive nel tentativo disperato di essere come loro. Nei vent’anni che seguono, la vita porta Zac in un viaggio sorprendente ed inaspettato che lo conduce ad accettare la sua vera natura e, cosa ancora più importante, porta suo padre ad amarlo per ciò che egli realmente è.

RECENSIONI

Ha il sapore dell'autobiografia il bel film di Jean-Marc Vallée, perché è ricchissimo di connotazioni personali, sfumature, spigoli caratteriali, che solo un'esperienza diretta (o un vero e proprio talento per la scrittura cinematografica e la messa in scena) può esprimere con tale partecipazione e chiarezza. Di conseguenza anche lo spettatore ha modo di entrare nell'universo del giovane protagonista, alla ricerca di un posto nel mondo non per forza lontano dagli affetti familiari, e di vivere il suo disagio e le sue emozioni. La storia è quella di una presa di coscienza della propria diversità rispetto al sentire comune e passa attraverso l'inferno dei sensi di colpa e della mancata accettazione (che si brama dall'esterno senza esigerla all'interno). Altro grande ostacolo l'educazione cattolica, anticamera della frustrazione nei momenti in cui si vorrebbe vivere in un modo ma si sente tutt'altro. Il regista canadese dimostra un grande controllo del mezzo cinematografico, arricchisce ogni sequenza di preziosi dettagli, ricorre in alcune sequenze anche ad effetti speciali e li integra con fluidità, riuscendo a trasmettere un quadro familiare sfaccettato e carico di umanità. Nessun predicozzo a favore della tolleranza, nessuna idilliaca accettazione da parte della collettività, ma un doloroso cammino di formazione verso la costruzione della propria persona. Il tutto mantenendo una certa leggerezza che non scade mai in superficialità, rifugge dal greve, e si mantiene vivacemente comunicativa. Cinema terapeutico per chi lo guarda (e probabilmente anche per chi lo fa) capace di rendersi universale grazie alle tracce di verità disseminate nel racconto (nonostante qualche prolissità nella parte finale). Strepitosa la colonna sonora che spazia dal "glam rock" degli anni Settanta di David Bowie, idolo del protagonista, alle canzoni di Charles Aznavour cantate in più di un'occasione dal padre. Un confronto di personalità già reso esplicito dai differenti gusti musicali. Incredibile la spontaneità del cast in cui si distinguono il giovane Marc-André Grondin, che veste i panni del protagonista dai venti ai quarant'anni, e Michel Coté, strepitoso nel ruolo del padre di famiglia.

Ci sono due aspetti che colpiscono, nel film di Vallée. Il primo è l’atteggiamento chiaramente ed eminentemente nostalgico verso gli anni ’70; abbastanza superficiale e furbetto, tuttavia, nell’accodarsi diligentemente alla pletora dei Come eravamo, esibisce musiche celebri (e in genere belle), look storici, arredamenti pazzeschi, poster leggendari, movimenti coreutici e acconciature d’epoca, a segnare vistosamente la distanza da quegli anni irripetibili e perduti. Malinconia per gli adulti, curiosità sorridente per i più piccini. Più in là non si va.
Il secondo aspetto è l’ipertrofia famigliare patita dalla fabula: anche i pochi personaggi esterni al nucleo dei Beaulieu compaiono in funzione di qualche scenetta o scenata famigliare. Se il film è un romanzo di formazione, la sua prospettiva è alquanto mutilante; ma i siparietti non mancano (sempre uguali a se stessi, tuttavia) e le risate del pubblico neppure. Certo, il regista ha l’onestà – d’altra parte scontata – di non fare del padre del protagonista una specie di mostro, ma semplicemente un uomo comune, né meglio né peggio di tanti altri. Per il resto, quante inutili ripetizioni, sottolineature, ridondanze! La presenza costante di crocifissi appesi un po’ ovunque (sempre lungamente inquadrati, va’ tu a capire perché; forse per farci sentire meglio l’oppressione del cattolicesimo sulla sessualità? Finezze di scrittura); l’empatia del giovane Zac con una madre provvida come la sventura manzoniana; il tormentone degli arcani poteri del ragazzo, con tanto di Maga Magò dal nullo carisma ma dalle banalità sempre pronte a fiorire sulle labbra; quello ancor più molesto dell’omofobia diffusa che fa soffrire il nostro eroe (il quale in tali momenti stringe immancabilmente gli occhi a due fessure: che stia imitando il Mr. Spock di Star Trek?): all’incirca ogni quattro minuti, infatti, qualche personaggio maschile (si sa, le donne furono sempre libere dal pregiudizio omofobo, e le migliori amiche dei gay) dà di matto imprecando a ripetizione “checca!” o “frocio!” o un equivalente qualsiasi, con tono derisorio o minaccioso. Abbiamo capito, grazie: non useremo più quelle brutte parole. Ma ciò che non avvertiamo, neppur da lontano, è il peso schiacciante della vergogna di chi quelle parole sentiva sulla propria pelle come delle staffilate: il tormento e la progressiva presa di coscienza di Zac sono solamente detti, esibiti, non raccontati e men che meno visualizzati.
L’intento pedagogico del film è forse rispettabile, ma il suo disegno è troppo sommario per essere accettabile: si serve del percorso esistenziale d’un personaggio per svolgere una tesi esemplare, e ogni variabile le deve essere sottomessa, ogni spessore sacrificato. Il risultato sarebbe indigesto, se non fosse condito con la furbizia nostalgica e i siparietti di cui s’è detto (particolarmente perfidi e perfidamente reiterati quelli che attengono alle manifestazioni più appariscenti del desiderio e della sessualità), con la commozione che giunge come il cacio sui maccheroni a stringere il cuore (ecco un altro bel motivo subito disperso, sprecato: il rapporto tra i due fratelli), con alcuni momenti indubbiamente riusciti (la traversata del deserto), e con molto buon senso accomodante. È strano, apparentemente, che proprio negli anni dell’integrazione dei gay si assista a un ritorno di film sull’epoca della vergogna, dei nascondimenti, dei tentativi di guarire dal male innominabile (come se fossimo ancora nei reazionari anni ’80). A chi si rivolge un cinema siffatto? Quali viltà rivela, quale strumentalità, nella sollecitudine con cui ancora oggi – anno di grazia 2006 – ci porta la buona novella della normalità degli omosessuali? Quale mito rassicurante – per i gay come per gli etero – cerca di edificare, con toni sì ammiccanti e commossi? Quanta mancanza di cinema copre? Per quanto concerne C.R.A.Z.Y, il cerchio si chiude come si era aperto: dalla famiglia alla famiglia. Il genitore anziano e il figlio ormai adulto veleggiano sereni verso casa, dove il padre di Zac ha accolto il di lui compagno. Perdindirindina!
Opera per famiglie, che i professori illuminati non esiteranno a proiettare nelle scuole. Il difficile puzzle di una conquista più amara che riconciliata – perché la realtà non è riducibile alla semplificazione binaria dell’accettazione/rifiuto, come l’autore sembra credere – resta inavvicinato da questo film bene educato, sorridente, modaiolo fronzoluto e pop come si conviene, accattivante, già visto, implacabilmente friendly, piatto come una tavola, tanto inerte che neppure la gioia e la lotta riesce a far sentire reali, nella propria marmorea rigidità espressiva.