Thriller

BURIED

Titolo Originale
NazioneSpagna
Anno Produzione2009
Genere
Durata95'
Sceneggiatura
Fotografia

TRAMA

Paul, un contractor americano che lavora in Iraq, si risveglia chiuso in una bara, con un cellulare e un accendino…

RECENSIONI

 

Il film-scommessa. Una categoria tradizionalmente hitchcockiana, con i fulgidi esempi della scenografia minima de I prigionieri dell’oceano e delle tre unità aristoteliche realizzate col (falso) piano sequenza in Nodo alla gola. Senza dimenticare il Litvak de Il terrore corre sul filo, termine di paragone, nella fattispecie, anche più calzante. Buried è però, attualmente, il caso più estremo della compagine (almeno nell’ambito commerciale della grande distribuzione). Interno bara, un unico attore sulla scena, pochi interlocutori telefonici, rumori. Scommettiamo che ci viene fuori un lungometraggio di 95’?. Estremo il caso, estremizzato anche il giudizio sugli esiti: Film Riuscito o Scommessa Vinta? E’ la questione, diciamo, classica sottesa ad ogni film scommessa che si rispetti, tanto più stringente, ribadiamo, in un caso oltranzista come questo. E non è questione di poco conto. 

Perché è impossibile non guardare Buried senza avvertire il peso dell’autolimitazione eretta a principio cardine, diremmo fondante, e senza attivare dunque una specie di doppio canale fruitivo: da un lato si segue “la storia”, il dato brutalmente narrativo del Thriller (Paul si salverà?), mentre dall’altro non si può fare a meno di uscire dall’universo diegetico per fare ipotesi e valutazioni sulla tenuta strutturale del Thriller ultraminimalista (cosa si inventerà, ora, Cortés per portare avanti questa cosa?). Va da sé che tra i due canali c’è una dialettica pericolosa, dove la visione – diciamo – critica/analitica rischia di compromettere quella tradizionalmente spettatoriale. Ora, prima che inizi a girare a vuoto, scrivendomi addosso lo stesso concetto all’infinito, cercherò di mettere la cosa chiaramente una volta per tutte, per non tornarci più: le scommesse sono molto interessanti per chi le fa, guardare uno che scommette può non essere questa gran cosa. 

Buried regge assai onorevolmente l'ora e mezzo di buia claustrofobia grazie a una regia che dosa con sapienza i misurati movimenti di macchina concessi dalla scenografia, una buona composizione del quadro, una fotografia capace di esaltare i pochi giochi cromatici possibili, un'efficace distribuzione ritmica degli eventi, qualche digressione/parentesi ben contestualizzata (la telefonata alla madre) e un epilogo (dopo un pre-epilogo rubato a The Descent) che ci è parso telefonatissimo (scusate), ma che nondimeno contribuisce a una necessaria accelerazione ritmica finale e non stona con il mood generale del film. In altri momenti, i diversivi trovati sanno di pacchiano (il serpente), forzato (l'eccessiva ottusità burocratica che tiene in piedi il film nelle prime telefonate effettuate dal protagonista, l'autoamputazione) o decisamente in-credibili (il licenziamento in linea). Tirando le somme, ci sembra che Cortés la sua scommessa l'abbia meritevolmente vinta, e il dato ci pare però prendere il sopravvento sulla riuscita 'pura' del film, a livello di piacere della visione. Un piacere, dunque, più teorico che pratico, rispetto al quale risulta davvero decisiva l'Idea di Cinema soggettiva e personale del singolo spettatore.

Umiliata, in chiusura, ci sentiamo però di azzardare una piccola ma decisiva perplessità sulla coerenza di una sceneggiatura altrimenti solida: appurato che la bara doveva trovarsi sotto non più di un metro di sabbia (lo specifica chiaramente nelle fasi iniziali il personaggio di Dan Brenner), non conveniva a Paul almeno tentare di risalire in superficie, specie dopo la rottura spontanea della cassa? Ma non l'aveva visto Kill Bill Vol.II?

Grande idea buttata via: poteva essere una sfida tecnica, ma Cortés la risolve senza genio, riprendendo la bara in sezione da tre lati; poteva essere un terreno fertile per la sceneggiatura, chiamata a movimentare con invenzioni e colpi di scena un’ora e mezza in un unico ambiente, ma Chris Sparling preferisce rinvenire la tensione e la frustrazione del protagonista nelle telefonate con il cellulare (molto più comodo). Soprattutto, era fondamentale che l’opera fosse credibile: Sparling, invece, rincorre il film politico per denunciare l’inanità delle istituzioni statunitensi nei confronti degli ostaggi in Iraq (se la prende anche con le società-squalo, le persone idiote, i burocrati), preoccupate solo del proprio ritorno d’immagine sui media, ma le situazioni che inventa (ridotte alle reazioni delle persone chiamate al telefono) sono grottesche, sopra le righe (l’amica che gli sbatte giù il telefono, il direttore del personale che esige, in diretta, una dichiarazione che li esoneri dalle responsabilità) e/ma fatte passare come drammaticamente realistiche, quindi involontariamente paradossali. Si crea un corto circuito insostenibile, forse dovuto al retaggio dei due autori, entrambi portati per la commedia (il regista spagnolo, precedentemente, aveva firmato la black comedy Concursante; Sparling ha diretto An Uzi at the Alamo). Cortés dice di aver preso a riferimento il cinema di Hitchcock, ma il maestro inglese sapeva che un thriller con sorprese, con unità di tempo e luogo e pochi personaggi, è molto più esposto all’inverosimiglianza: Sparling e Cortés non hanno il benché minimo senso della misura e del linguaggio cinematografico. Meglio rivedersi l’episodio di Tarantino per "CSI", Sepolto Vivo, la sua Uma Thurman nella bara di Kill Bill Vol. 2: riuscivano a creare tensione nonostante il pulp grottesco. Oppure leggersi “La sepoltura prematura” di Poe.