Drammatico

BUONGIORNO, NOTTE

TRAMA

Chiara, giovane terrorista, è coinvolta nel rapimento di Moro. Attraverso il suo sguardo vengono rivissuti i giorni più tragici degli anni di piombo in Italia.

RECENSIONI

Bellocchio reimmagina il caso Moro: rinvenuta una chiave, il misurato dividersi tra un approccio realistico - alla base del film il libro Il Prigioniero della brigatista Braghetti - e uno più libero e fantasioso(fantasmatico), il regista si addentra nella vicenda percorrendola a modo suo, reinterpretandola, arricchendo il dato cronachistico di inventivi chiaroscuri. Poco politico e più psicologico, moderatamente storico e molto immaginoso, il film è un gesto creativo infedele che Bellocchio compie nei confronti di una tragedia sfogliata in questi anni fino all'estenuazione. Nelle sue mani la vicenda diventa oggetto ingiudicato e ingiudicabile che il cineasta pone in una dimensione alternativa impossibile, nell'intento di contraddirre la nota fatalità storica del rapimento e dell'esecuzione dello statista, di rifiutare utopisticamente di subirla. In questa coraggiosa scelta di una visione personale, quasi romantica e a tratti irreale, l'autore riesce a riproblematizzare l'esausta questione rioberandola di domande, molto più di quanto una qualsiasi, asettica ricostruzione storica riuscirebbe a fare. Bellocchio, partendo dalla cronaca (il film gli è stato commissionato dalla RAI) anziché ossequiarla, la piega alla sua poetica, ne fa "suo" cinema, imponendole il suo stile e il suo gusto per certe, cariche atmosfere (e in realtà se una cosa può essergli rimproverata è di non aver completamente affondato il colpo, di non aver optato radicalmente, come ha scritto giustamente Sesti, per "una scelta pericolosa"); costruisce a dovere un personaggio che resta - quello della terrorista Chiara, scissa tra l'ideale della rivoluzione armata e l'istinto umano e pietistico -; concentra claustrofobicamente gran parte del dramma tra le mura dell'appartamento dei terroristi, restituendone i momenti quotidiani  (i pasti, il sonno, le parole) e disegnando il ritratto di un'inquietante famiglia clandestina; spia il rapito, lo svela pian piano, facendo di quel buco praticato sulla porta della sua prigione, l'occhio privilegiato non solo della protagonista ma anche di uno spettatore che più di una volta resterà attonito (le scene oniriche in cui Moro passeggia per la casa e in cui, a detta dello stesso cineasta, si manifesta il fantasma di suo padre, cui il film è peraltro dedicato); si concede un sipario metafisico (l'ironico quadretto della seduta spiritica in cui lo spirito Bernardo - Bertolucci, ha ammesso il regista - sbeffeggia gli astanti); dissemina il film di segni traditori e contraddittori (i terroristi che si fanno il segno della croce). E nel finale, quando le evocatrici note di Shine on you crazy diamond The Great Gig in the Sky dei Pink Floyd (Wish you were here è del 1975, The Dark Side of the Moon del 1973) raggiungono l'acme, la sequenza di Moro libero per le strade seguita da quella in cui si approssima la sua esecuzione sanciscono icasticamente la commistione che ha nutrito l'intero film, ne sintetizzano mirabilmente gli assunti, espongono con semplicità ammirevole la scomoda convivenza delle due anime dell'opera.

Sembra impossibile poter aggiungere ancora qualche cosa sugli "Anni di Piombo" senza cadere nel già visto, detto o sentito e, soprattutto, non dimenticando il cinema. Eppure Marco Bellocchio riesce nel miracolo e costruisce un racconto cinematografico intriso di bellezza e novità. Non sceglie la strada del film inchiesta, ma mette in scena la banalità del crimine attraverso il rapporto tra Aldo Moro e i suoi rapitori. Un confronto di cui viene evidenziata principalmente la quotidianità, il succedersi di giorni in apparenza uguali ad altri e invece determinanti per la futura storia d'Italia. Il punto di vista adottato è quello della giovane brigatista Chiara, combattente rivoluzionaria in nome di un'utopia che viene gradualmente smascherata fino a perdere spessore e credibilità. Nei suoi occhi troviamo smarrimento, paura, determinazione ed è in quelli che ci specchiamo per cercare di capire. A Bellocchio non interessa la verità degli accadimenti, la precisa ricostruzione dei fatti, ma un'interpretazione personale senza tesi ideologiche da esporre, con bastonate sia per chi il potere ce l'ha, sia per chi quel potere cerca di distruggerlo. Un approccio più vicino alla psicanalasi (sempre cara al regista) che al documento storico, più vicino al sogno che alla realtà, più vicino all'uomo che al politico e per questo anche più diretto. In tutto ciò il cinema viene utilizzato con competenza e sensibilità, grazie a un montaggio fluido, a una sceneggiatura che rischia più volte di impaludarsi nel didascalico ma che riesce sempre ad evitarlo, a una fotografia di grande intensità e a un commento sonoro perfetto per amplificare la resa emotiva delle immagini. Difficile non caracollare quando le lettere di Moro vengono affiancate a quelle dei condannati a morte della Resistenza, tra le note struggenti e potenti dei Pink Floyd con "The great gig in the sky". Molto espressiva, nei suoi silenzi, la giovane protagonista Maya Sansa e davvero in parte Roberto Herlitzka, nel non facile ruolo di Moro.
è vero, il film aveva tutte le carte in regola per vincere il Leone d'Oro al Festival di Venezia, ma è comprensibile il distacco di una giuria internazionale nei confronti di una pagina così prettamente italiana, con nomi e luoghi difficilmente riconoscibili da chi quegli anni non li ha vissuti in prima persona, seppur da spettatore. In ogni caso, inutili le polemiche da Sagra del Cotechino di chi pretendeva ad ogni costo un riconoscimento. Grazie al cielo la giuria, presieduta da Mario Monicelli, ha deciso in autonomia, fuori dai condizionamenti di media, produttori e distributori, anche se probabilmente tante chiacchiere aiuteranno il
successo commerciale del film. Ed è comunque un bene!