TRAMA
Nella cittadina di Endora, Iowa, la monotona esistenza di Gilbert Grape, commesso di drogheria alle prese con una madre grassissima ed un fratello mentalmente disturbato, riceve uno scossone dall’arrivo in città di una bella ciclista…
RECENSIONI
Lasse Hallstrom non è quel che si dice un grande regista (per usare un eufemismo): la sua scrittura filmica è di solito raffinatamente manierata quanto priva di vera forza, la sua zuccherosa eleganza sa di muffa, la piattezza di dialoghi e recitazione non aiuta lo spettatore a prendere fiato fra una cucchiaiata di melassa e la successiva. Ma esiste un’eccezione almeno parziale: questo Buon compleanno, Mr. Grape, che, pur non rinunciando alla poetica delle piccole anime solitarie tanto cara al Nostro, la rilegge con un tono meno intriso di buonismo del consueto.
Al centro dell’intreccio troviamo, come ne Le regole della casa del sidro, il classico antieroe placido (un po’ alla fratelli Coen, ma meno complesso ed interessante) cui la vita sembra scivolare addosso: ma non tutto è bontà e misericordia sotto il sole che illumina gli sterminati spazi ripresi da uno Sven Nykvist in forma smagliante, come si può vedere da tanti piccoli segnali all’apparenza sterili.
Una banda di ragazzini segue con divertita attenzione, spiando dalle finestre, i gesti dell’elefantiaca madre di Gilbert, e la famiglia Grape nel suo complesso è una “nota falsa” all’interno del piccolo mondo rurale che fa da sfondo all’azione. Endora è un minuscolo universo crudele che imprigiona sotto vuoto e schernisce i suoi freaks, nel senso più profondo e burtoniano della parola (difatti Gilbert è interpretato da Johnny Depp). L’integrazione fra i “normali” ed i “mostri” è un sogno, puro e fragile come il volto d’un adolescente toccato, certo, ma dal soffio di un dio, cui DiCaprio sa infondere una verità quasi disturbante.
Il racconto procede lento e dolce, pieno di sguardi silenziosi che rischiano la maniera e spesso lo sono, mentre le prove superbe di un cast ideale aiutano il regista ad evitare eccessi pietistici. Non è poco, ma non basta a fare un film in grado di sopravvivere ad una seconda visione.

Il secondo film statunitense dello svedese Hallstrom rinnova i temi dei legami familiari e della solitudine ma sotto una veste del tutto inconsueta: una commedia Freaks dove il dramma e la poetica dei sentimenti vanno a braccetto con un grottesco andante, leggero, abbellito dalla incantata fotografia di Nykvist sulla natura. Il cinema del regista sembra adattarsi alla perfezione alla “generazione X” di allora (di cui Johnny Depp e Juliette Lewis erano sorta di alfieri): un po’ dark/macabra solo perché reinventava il romanticismo rifuggendo le ipocrisie e i falsi pudori; alla (ri)scoperta del valore dei sentimenti ma trattenendo molto le esternazioni, finanche impenetrabile, con uno sguardo che denota saggezza e la mansuetudine della rassegnazione. I giovani dell’opera sono sradicati, cristi o cavalieri argentati (il personaggio di Depp) e solo in quest’ottica si può giustificare un messaggio di fondo incoerente, che passa dall’edificante all’accettazione della diversità fino al suo vergognato occultamento (la pira finale stile Nostalghia di Tarkovskij), dall’elegia dei vincoli parentali alla catarsi data da un loro scioglimento definitivo. Ma è anche un cinema che vive di dettagli lirici, riflessioni profonde che scaturiscono potenti dalla delicatezza d’approccio, di commozioni forti che riescono ad aggirare l’incombente pericolo delle lusinghe patetiche (non solo per la presenza dell’ennesimo Rain Man) grazie alla “normalità allucinata” con cui Hallstrom dipinge il tutto, prestandosi ottimamente (come il citato film di Tod Browning) sia all’amarezza che alla tenerezza (affettuosa/divertita) che possono ispirare gli “ultimi”, i perdenti dal gran cuore. Tutto il cinema dello svedese sarà improntato ad ambiguità di significati ovviati dalla lievità con cui riescono a toccare i moti dell’animo, dalle superbe prove attoriali e dalla raffinatezza della messinscena, ma raramente toccherà risultati così alti.
