
TRAMA
La fidanzata si toglie la vita con una pistola. Ossessionato, cerca un’arma anche lui e la vuole utilizzare contro una banda che lo malmena più volte, da quando ha salvato la vita alla ragazza con propensioni suicide del gruppo.
RECENSIONI
Il precedente Tokyo Fist è il capolavoro di Shin’ya Tsukamoto: quest’opera è la sua faccia low-budget e sporca, basica, meno allegorica/onirica, più ellittica nei temi affrontati. Ancora una volta, è il fantasma di una donna a muovere il protagonista, ancora siamo spettatori di personaggi attratti dalla morte e dalla violenza (subita o auto-inflitta), ancora c’è di mezzo un pugile (ma è una figura marginale) ma questo ricercato, caotico modo di riprendere e montare di Tsukamoto è spossante: la macchina da presa a mano iper mossa, il bianco e nero poco definito (anni sessanta), la predilezione per le scene notturne con lo stilema dei “flash” in cui luce e buio si alternano. Il racconto in sé ha un’idea di fondo discreta (il trauma dell’amore suicida che porta all’ossessione feticistica per l’arma e al transfert su di un altro essere umano: pare uscire dal Crash di Cronenberg) ma finisce con l’avere troppi rimandi (volontari e non) a Taxi Driver (vedi la scena in cui Tsukamoto, nel ruolo di Goda, con la pistola in mano si denuda il busto e delira davanti allo specchio), per di più involuti in una trama di nonsense e assurdità dettati, più che altro, da scelte estetiche (il linguaggio filmico). Nel bene e nel male, comunque, un cinema unico, girato dall’autore con la sua compagnia teatrale Kaiju Theatre e debitore (anche) delle opere sperimentali e violente di Wakamatsu.
