Drammatico, Recensione

BROTHERS (2009)

Titolo OriginaleBrothers
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2009
Durata105'
Sceneggiatura
Tratto dadal film
Fotografia
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Sam Cahill, marine fatto prigioniero in Afghanistan, è creduto morto dalla sua famiglia. Il fratello Tommy, da poco uscito di prigione, sente una responsabilità nei confronti delle nipotine e della cognata. Ma Sam torna a casa…

RECENSIONI

Remake di un film danese non memorabile (Brodre di Susanne Bier, in italiano Non desiderare la donna d’altri) Brothers se ne rivela la pedissequa, quasi letterale, riproposizione. Sheridan ricopia il modello punto per punto, immergendo le storie individuali in uno sfondo ben individuato (l’America post 11 settembre) e facendo della missione in Afghanistan - qui il disperso è un marine, nell’originale un casco blu – l’elemento narrativo forte che segna l’esistenza del giovane capitano Sam, rendendo difficile il suo ritorno a un nido familiare che trova mutato sia per la sua oramai compromessa prospettiva esistenziale (costretto al bestiale omicidio di un commilitone, ne serba il segreto anche con le autorità), sia per l’oggettiva difficoltà dei suoi familiari a rapportarsi di nuovo con il revenant.
Il film si appiattisce su un’esposizione semplicistica delle relazioni di personaggi che rispondono matematicamente ai loro caratteri, palesemente dichiarati, tracciati grossolanamente e senza alcuna sfumatura su una pianta narrativa che tocca un bel po’ di punti dolenti, tanto da perdere il suo centro. Se quello danese era un film che aveva dalla sua un'identità stilistica e una discreta cura per un’immagine piegata quasi sempre alle esigenze del dramma, Brothers appare invece come un prodotto di spessore televisivo, buono per un’inchiesta a seguire in seconda serata. Concentrato tutto sull’intreccio, dunque, il film si muove sostanzialmente su due versanti: quello bellico, in cui la questione della missione in Afghanistan è sviluppata secondo una dinamica elementare, stante l’evidente soggiacenza e strumentalità al (eccolo) secondo blocco tematico, quello intimo familiare che si apre maldestramente a una serie di risvolti tragici. I motivi toccati non sono da poco: il figlio modello che diventa una macchina da guerra, spietata fino al disumano, complice la miope etica militare di un padre reduce del Vietnam (le due Americhe in guerra, a confronto); il secondogenito che non ha ereditato l’ ordine paterno, incompreso e perciò scapestrato – meccanismo che tende a replicarsi nelle figlie di Tom e Grace -; il vincolo coniugale costretto alla resurrezione; un tradimento (tra fratelli, tra coniugi) che non è un vero tradimento, e non solo perché non ci fu amplesso.
Di dilemmi morali ce ne sono in avanzo (la Bier ne ha fatto una filmografia), ma abbandonati a sé stessi, mentre tutto si concentra sul sospetto rapporto carnale tra cognati e su una concitazione scenica degna di miglior causa: l’unico momento che sembra avere un po’ di vita è quello della cena di compleanno in cui la tensione finalmente si rende palpabile e la drammaturgia ha modo di svilupparsi nell’adeguato contrappunto dei personaggi, in questo frangente Sheridan (che un bel film, In nome del padre, lo può vantare) riuscendo addirittura meglio del modello di partenza; ma è un lampo, il film torna subito ad affogare nel suo anonimo schematismo, precipitandosi a chiudere in fretta e furia con la confessione dell’ineffabile colpa che attanaglia il protagonista. Sul fronte attoriale Toby Maguire vince la partita, la Portman sa piangere, Gyllenhaal è fuori parte, Sam Shepard fa finta di crederci.