Commedia, Recensione

BREAKFAST ON PLUTO

Titolo OriginaleBreakfast on Pluto
NazioneIrlanda
Anno Produzione2005
Genere
Durata135'
Sceneggiatura
Tratto dadall'omonimo romanzo di Pat McCabe
Fotografia
Montaggio
Scenografia

TRAMA

La vita di Patrick ‘Kitten’ Braden: l’infanzia in Irlanda, la scoperta del travestitismo, il rapporto con la Chiesa cattolica, i primi amori, l’arrivo a Londra, la vita notturna, l’avventura del terrorismo, la conquista della serenità.

RECENSIONI

Rischia di passare inosservato Breakfast on Pluto, che approda nei nostri cinema (con due anni di ritardo e scortato da un doppiaggio prevedibilmente imbarazzante) in una primavera anche più sonnacchiosa del solito. Eppure questo piccolo film è una delle cose migliori uscite dalla macchina da presa di Jordan, che, quando mette da parte la magniloquenza patinata, sa offrire scampoli di sogno. Patrick/Patricia, innocuo vampiro che insegue un fantasma e si trasforma in un (im)provvido capro espiatorio, è al centro di una fiaba disneyana (vedi In compagnia dei lupi) al tempo stesso compiaciuta e autoironica, sarcastica e dolce, prodiga di asperità dickensiane (i dolori domestici del giovane Kitten) e unghiate feroci (il dialogo fra padre e figlio, concentrato nei loculi opposti e simmetrici del confessionale e del peep show; le chiacchiere delle comari e l'esasperazione dei prelati) perfettamente mescolate a trasfigurati squarci di vita (l'attentato nel pub, l'incendio della canonica). Il romanzo di formazione (suddiviso in regolamentari capitoli) sfiora la Storia, ma il regista (a differenza di più blasonati colleghi) non pretende di offrire lezioni: l'amore finisce in polvere, la magia inasprisce la sofferenza per trarne miserabile profitto, l'unica risposta è la serendipità, l'incontro (im)previsto, lo sfiorarsi di tasselli apparentemente estranei che solo una plongée può (ri)unire.

Ancora l’Irlanda sullo schermo con Breakfast on Pluto, che raccoglie lievemente gli spunti seminati negli ultimi anni: le bombe nei luoghi pubblici e la violenta risposta poliziesca come Nel nome del padre; il sottobosco cattolico intimamente compromesso, al centro di Magdalene; lo slittamento dalla posizione ideologica alla presa delle armi, vedi il finale di Bloody Sunday; l’irlandese che si appresta a nuova vita nella grande città (New York come Londra) da In America. Nello specifico, non sono i segnali tradizionali dell’intreccio (amicizie, amori, omosessualità, ricerca materna) a stupire ma lo stile di Jordan: a suo agio nel percorso a tappe, l’autore scivola mirabilmente sui temi di cui sopra all’insegna della leggerezza problematica. L’amabile Patrick Kitten Braden, unanimemente detto “sprovveduto”, realizza in realtà continue prese di coscienza e si dibatte nella sua rete esistenziale sempre dolorante, tra fiammate bombarole e vampate affettive, con l’approccio fiabesco come scudo e caposaldo per parare i colpacci del vivere. E sembra perfettamente legittimo, oltre che attentamente miscelato, l’approccio ardito del regista: la favola diventa dramma (e viceversa), non c’è soluzione di continuità ma nessuno la richiede. Preferibile farsi acchiappare dai fugaci voli pindarici; la trama è terremotata da innesti testardamente stranieri, gioiosamente colorati, eppure mai casuali ma studiati per incidere un disegno profondo degli ambienti (il coro dei pettirossi, che colpo di genio). Il film è un melò strascicato e strappalacrime da copione, che vive di esangue sentimentalismo a tratti svenevole e, soprattutto, dimostra che l’elefante può diventare una farfalla: l’amaro punto della questione è centrato in pieno, tra lacrime e sorrisi, il macigno è più leggero ma resta una pietra pesante sul cuore. Ambiguo come l’identità di Patrick/Patricia e ammaliante come Cillian Murphy, una donna bellissima.

Analogamente a quanto accadde ne La Moglie del SoldatoBreakfast on Pluto procede a un recupero dell'epos mettendo a frutto un deciso scarto verso il basso e il collettivo. Jordan sa infatti evitare la retorica stucchevole dell'eroe mentre ne illustra il carattere, l'anticonformismo radicale e genuino e perciò pagato a caro prezzo, il gusto della provocazione; il tutto deliziosamente seventies, ma capace di insegnare molto a chi oggi sa di più, e nondimeno accetta di non disturbare il manovratore (l'eterna recita dei potenti, la ferrea tirannia del luogo comune appena ammantata dalle formule del politically correct, la plumbea legge del quieto vivere, il paravento subdolo dei valori) occultando la propria diserzione dietro sofismi intellettuali o ludiche soddisfazioni. Jordan ovvia anche al rischio della retorica opposta, forse meno annosa ma non meno stucchevole: il cinismo menefreghista e arraffone, astutamente truccato da amaro disincanto o meglio ancora esibito senza veli ma con l'esca del citazionismo – con il che la patente autoriale è assicurata – e d'una efficace spettacolarità. La prova del genio registico, anzi, starebbe proprio nel saper costruire il nulla col divertimento intorno: troppo comoda e troppo letterale interpretazione della celebre massima di Lacan, secondo cui scopo dell'arte è di far esistere il vuoto. Breakfast on Pluto è dunque un film inattuale. Anche il suo carattere corale, nonostante la narrazione in prima persona e per di più da una prospettiva del tutto singolare, mette in risalto – come non costuma più – lo scorrere dell'esistenza in un fiume di relazioni (i personaggi incrociati sono invero numerosi, ciascuno apportatore di un fattore x all'evoluzione del protagonista) con le sue correnti contraddittorie, gli ostacoli imprevisti, le secche e i dislivelli abrupti (le tre vite del padre: l'ipocrita, la penitente, la 'liberata'), le derive e gli sprofondi (la tragica sorte dei due amici): la drammatica dialettica col perbenismo e l'ipocrisia sociale; il conflitto anglo-irlandese negli anni della strage di Derry (30 gennaio 1972), cioè quelli della sua più acuta violenza, per cui non è caso straordinario l'amare un sovversivo o il perire di una persona cara in un attentato; l'ansia di conoscere il limite nell'unico modo possibile, cioè saggiandone la soglia anziché tenendosene a prudente distanza; la volontà di autoaffermazione dei 'figli' che cercano di prendere il posto dei 'padri' per cambiare le cose; il doloroso e diverso – ora silenzioso, ora variopinto e rumoroso – processo di emancipazione femminile (il destino di due generazioni viene incarnato nei personaggi della madre e dell'amica del cuore): tutto conta e tutto passa, sedimentando in Kitten che tuttavia sa preservare la sua condizione di “sprovveduto” (rimprovero mossogli a più riprese dai suoi interlocutori), ossia l'integrità fraintesa per stolidità o inaccettabile naïveté o cocciuta impermeabilità all'esperienza. Un film nostalgico, anche. Nel senso migliore, però; da un lato, infatti, non concede troppo alla tenerezza ricattatoria del come eravamo (ma la colonna sonora, che recupera finanche i Middle of the Road, è un attentato emotivo per chi oggi ha quarant'anni), e pone l'accento sull'estro di una generazione audace nel voler essere agente del proprio desiderio e generosa nell'immaginare il cambiamento radicale (quale rappresentante migliore, in questo, del protagonista?), sperimentandolo da attrice consapevole e spiritosa (il canto degli uccellini viene sottotitolato; alla minaccia “Ti svergono!” si risponde “Me lo prometti?”), e pensandolo da vera autrice (l'eloquente sequenza conclusiva). Dall'altro lato, Breakfast on Pluto non si rifugia nella costruzione di un'immagine trasparente e univoca del mondo, e testimonia dell'autosufficienza ma anche dell'opacità del reale; quella stessa ambiguità che il gusto fabulatorio e sognante di Kitten (“fingo che non sia la mia storia, perché altrimenti piangerei”) vuole argutamente riprodurre, quando perfino la sua confessione più segreta è un racconto che strappa alla morte le persone amate; ed esattamente come tali narrazioni, l'affresco di Jordan è lontano dalla celebrazione e ricco di ombre e di curiosità (perfino per l'oscuro aggressore, a cui presta il bel volto segnato Bryan Ferry).
Ma ancora una volta, come gli è accaduto anche nelle opere più riuscite, Jordan difetta del rigore formale che la sua scelta meriterebbe; l'equilibrio fra istanze narrative – il romanzo di formazione di Kitten – e critiche – la vitalità anarchica e anti-maschile quale unico fattore capace di spezzare il circolo della violenza e della negazione/discriminazione – è instabile, scivolando ora nel romanzetto fucsia ora nello schematismo ideologico. L'ibrido ha tuttavia, fra discontinuità e ridondanze, una sua indubbia riuscita: i film di Jordan sono memorabili avventure ed emozionanti scandagli ma pure, in qualche misura, sempre delle occasioni mancate.

Non che qui si parteggi per la radicalità delle scelte, per il bianco o il nero, per la A a discapito della B, basando il nostro giudizio sulla (non) soddisfazione dovuta a scelte che (non) avremmo preso anche noi, fossimo stati nei panni dell'autore. Non che non si abbiano idee riguardo al come avremmo voluto fosse l'opera (per carità, chi non le ha?), ma farne effettivamente un discrimine, fondamento di un giudizio comparativo tra la sostanza e la remota ipotesi, necessiterebbe un quid di ottusa tracotanza che sentiamo non appartenerci ancora del tutto (lasciamo spazio alla riserva, comunque). Ma, come si dice, bando alle ciance. Ciò che non convince, in questo Breakfast on Pluto è la scelta della medietà tra gli estremi percorribili in potenza dal film (la semplice dicotomia favola / dramma realistico): scelta legittima, naturalmente, condannabile non perché non radicale, ma perché disomogenea rispetto al personaggio protagonista, debole, confusa. La struttura narrativa, basata sull'incedere a tappe del romanzo di formazione, con tanto di titoletti recitanti in prima persona, presagirebbe una completa adesione del testo al personaggio, facendo divenire del primo il correlativo del secondo: risulta invece palpabile la discrepanza tra l'euforica, ingenua, genuina, eccessività del personaggio (che interpreta la realtà come fosse una favola) e la messa in scena, ancorata per lo più a istanze realistiche, solamente a tratti rielaborata secondo l'eccentrico punto di vista di Patrick/ Patricia (gli uccellini che conversano, gli inserti dichiaratamente onirici). Anzi, ciò che, sicuramente, il protagonista sembra proiettare sul mondo circostante è invece un certo macchiettismo di fondo (dovuto si spera alla consapevolmente manichea semplicità della narrazione favolistica e non a carenze di sceneggiatura), tendente a volte all'accenno inconsistente o alla bidimensionalità: se quindi la rielaborazione in forma di favola avrebbe trovato consistenza e omogeneità anche nel poco approfondimento di tematiche e personaggi, la medietà di tono scelta da Jordan si tramuta invece in discontinuità, in contrattazione perenne e irrisolta tra favola e realismo, risultando insoddisfacente su entrambi i versanti. Una piccola nota: Cillian Murphy dà corpo in modo straordinario alla spontanea innocenza del protagonista, sottolineando le sfumature di un personaggio così sinceramente semplice dall'essere ai limiti stereotipo. Peccato che, nella sconfortante edizione italiana, non gli sia possibile donargli pure la voce.