TRAMA
L’infanzia, pubertà, e adolescenza di Mason Jr., ragazzo texano figlio di genitori separati.
RECENSIONI
Girato a intermittenza durante un periodo lungo dodici anni, il nuovo film di Richard Linklater colpisce innanzitutto grazie alla sua capacità di trasformarsi in una sorta di capsula del tempo cinematografica che sembra conservare i momenti più preziosi (e anche alcuni di quelli meno significativi) nella vita di Mason Jr. (Ellar Coltrane). La semplicissima struttura del film, una narrazione lineare fatta di brevi sequenze organizzate cronologicamente, segue l'evoluzione dei suoi personaggi dal punto di vista non sono intellettuale, ma anche strettamente biologico, conferendo alla pellicola un enorme impatto emotivo. La famiglia di Mason, le cui vicissitudini attraversano la recente storia degli Stati Uniti, e in particolare quella dello stato del Texas, diviene conoscente, vicina di casa, perfino amica dello spettatore. Se ne segue la traiettoria individuale e collettiva mentre passo passo si rivivono le controversie scaturite dalla guerra in Iraq, l'entusiasmo per l'elezione di Barak Obama, lo scandalo dei mercenari Blackwater, e altri eventi di carattere geopolitico che proiettano la loro ombra sulle vite di questi piccoli, ordinari personaggi. A tratti Boyhood può ricordare l'interesse per la politica delle saghe familiari viscontiane come Il gattopardo (1963) o La caduta degli dei (1969), o l'ampio respiro de La meglio gioventù, ma il film di Linklater si concentra principalmente sull'umanità dei suoi protagonisti, sulle piccole emozioni, sui fallimenti e sui successi, sulle mete prefisse e sui traguardi raggiunti. L'effetto di questa compressione cronologica è duplice: da un lato si ha la sensazione che i segmenti del film siano cristallizzati, come insetti nella resina, ed incapsulino un momento storico, una pagina di diario, e anche uno stadio nella carriera del regista. Dall'altro lato, l'estrema dinamicità di questa accelerazione temporale ci colpisce per l'inesorabilità del passo con cui procede, nel modo in cui ogni nuova ruga sul volto dei personaggi si fa testimone della celebre locuzione virgiliana.
Boyhood è un film fondamentalmente senza trama, che non procede secondo le strutture drammatiche convenzionali proprio perché non è imitazione della vita, ma vita stessa. In questo, si tratta di un film sovversivo, nel senso che sconvolge le regole alle quali siamo abituati e di cui, come spettatori, siamo complici. La sospensione dell’incredulità, contratto che sottoscriviamo ogni qualvolta entriamo al cinema, non è più necessaria, in quanto oggetti e persone invecchiano sullo schermo come hanno fatto nella vita reale. L’effetto è talmente efficace che si fa perfino straniante, al punto che si cerca ogni appiglio per restare ancorati alla realtà cronologica che si dipana libera da ogni costrizione narrativa. In esso si osserva anche il processo di maturazione di Linklater, che simultaneamente sviluppa numerosi altri progetti quali School of Rock (2003), Before Sunset (2004), Bad News Bears (2005), Fast Food Nation (2006), A Scanner Darkly (2006), Me and Orson Welles (2008), Bernie (2011), e Before Midnight (2013). Sicuramente l’umanesimo di Linklater è il comune denominatore di molte di queste pellicole, ed emerge in special modo della trilogia “Before”, che con Boyhood condivide anche numerose cifre stilistiche quali la conversazione fra sue personaggi seguita da una carrellata frontale, oppure quella che si sviluppa in automobile, memore di tanto cinema di Abbas Kiarostami. L’aspetto sperimentale di questo tour de force si rende visibile nelle poche occasioni in cui una inquadratura non riesce perfettamente, in cui la luce non bacia gli attori in modo uniforme, nelle increspature di una sceneggiatura tutto sommato ripetitiva e un po’ banale; ma sono queste imperfezioni che rivelano la complessità del macchinario, altrimenti nascoste in giunture quasi invisibili, che rispecchiano appunto quell’umanesimo, quella particolare attenzione e amore per i personaggi che è soggetto artistico e imperativo morale del cinema di Linklater. Il regista texano, grazie all’affetto paziente che dimostra nei confronti del nostro mondo e della nostra inalienabile finitezza, raggiunge con questo film la sua summa poetica, confermando di essere, senza alcun dubbio, una delle maggiori voci del cinema americano contemporaneo.
Linklater sabota una base del racconto di formazione, l’artificio dell’ellissi temporale. Egli oggettivizza il “fatto” della crescita: la storia non va avanti invecchiando manualmente il protagonista, questi semplicemente diventa grande. La verità della crescita smonta la finzione della retorica narrativa: si può passare fluidamente per il film con bambino, il college movie, la famiglia anomala, la storia d’amore e il coming of age, perché i segnali di genere sono già sfiduciati dall’evoluzione del corpo del protagonista. Il genere è la crescita. E non serve una trama perché crescere è la trama: così, gradualmente, lo sviluppo di Mason permette di osservare anche il mutamento di chi c’è intorno, dei loro gusci esteriori e delle relazioni tessute. Questa “semplice” trovata conduce ad esiti estremi, mostra le perdite e le rimanenze degli altri, chi sparisce e chi resta, ma soprattutto le gradazioni delle vie di mezzo: per tutti la litigiosa complicità tra Mason e Samantha bambini che, nella festa del diploma, si trasforma in un timido gesto d’intesa da parte di lei. La relazione si è evoluta naturalmente, nel tempo. E quel nel, lo spazio in cui le cose cambiano, è la sostanza di questo film. Boyhood corteggia figure del cinema commerciale americano (per esempio, la Mamma della Arquette) mentre le smentisce con lieve ironia: non a caso la battuta finale di Mason sulla sorella, «She’s pregnant», è solo uno scherzo. Così come, in un ulteriore svuotamento del genere, Mason nella fotografia non trova uno sguardo sul mondo, alla fine lo sta ancora cercando. Lo scambio finale padre/figlio («What’s the point?», «Of what?»), diegeticamente inattendibile (un padre, a confronto col figlio, esercita una dialettica per consolarlo), in realtà offre un decisivo percorso di senso: l’evento viene superato dalla sua percezione, o meglio dall’impressione che è sempre soggettiva, non importa che succeda qualcosa ma importa sentire qualcosa. La vita dunque come somma di momenti, continui alter ego dei frame della pellicola, che si riducono a uno solo: rovesciando la mitologia tradizionale del Tempo, qui è l’attimo che ci coglie, e l’attimo è sempre lo stesso. Il tempo della vita di Mason si apre come una fisarmonica ma, quando il momento “accade”, questa si richiude e gli estremi si toccano: gli attimi coincidono, il tempo è uno e definitivo. Per questo la cinepresa di Linklater inquadra tutto con il medesimo rispetto: Sheena, amore di gioventù che finisce, non viene giudicato ma mostrato con sguardo pudico, come parte del tutto che è un passato/presente in divenire. Ma Boyhood è più impalpabile e sfuggente di così, meno definito e più sfrangiato: non è vero che il regista non sapeva dove parare all’inizio, dodici anni fa, anzi ha subito aderito alle oscillazioni di Mason, seguito i bordi sbeccati dell’adolescenza, valorizzato le sue impurità. Linklater interroga il tempo e ottiene in cambio un filo logico e coerente: il film prende forma e deborda, evade il formato pensato (120 minuti: 10 minuti l’anno x 12) perché la storia del crescere, per quanto diretta, è autonoma e non accetta recinti. In questo flusso, la fanciullezza come metonimia della vita si imprime: ovvero fa impressione, viene restituita nella sua parzialità, dall’angolo di visione particolare di Mason che è sottile e inafferrabile come quello di noi tutti. «What’s the point? I sure as shit don’t know» (Dad/Ethan Hawke).
Se ogni film è anche il documentario della sua lavorazione, a Boyhood il concetto si applica in modo smaccato e cristallino, quasi straniante. Girato in 45 giorni disseminati nell'arco di poco più di 11 anni, il film-manifesto di Linklater non nasconde bensì esplicita e trasforma in narrazione le modalità pratiche con cui è stato realizzato: lesigenza di radunare il cast per una manciata di giorni ogni anno, lo script "inesistente" perché lavorato in divenire, in gruppo, di segmento in segmento; l'imprevedibile effetto speciale fisiologico della crescita di Ellar Coltrane alias Mason Jr. (e di Lorelei Linklater, la figlia del regista nel ruolo di sorella maggiore); lo scomparire e riaffiorare di figure marginali della trama, a seconda della disponibilità dell'interprete più che dell'economia narrativa, come in una reiterata, permanente reunion del cast (a distanza di 3, 5, 10 anni: si veda a questo proposito la ricomparsa del messicano Ernesto, manovale incoraggiato dal personaggio di Patricia Arquette a proseguire gli studi, che fa capolino in modo incongruo nel finale, come proprietario di un ristorante, apostrofando il resto del cast con "ehi, ragazzi", come se non fosse passato un lustro). Boyhood è un documentario sulla lavorazione di Boyhood: quella di un film intimo e personalissimo per Linklater, girato nel suo Texas, con sua figlia come protagonista, con la sua splendida auto che diventa il mezzo adorato da babbo Ethan Hawke. Un film girato tra amici, in squadra, con modalità estranee a qualsiasi produzione commerciale, con un manipolo di sodali/coautori che lavorano senza contratto (non è possibile firmare contratti cinematografici della durata di più di 7 anni, in America), che prestano il proprio corpo alla sutura impietosa del montaggio e al suo effetto "fast forward" sui loro volti. Un film in cui Linklater insegue il suo ideale di vita inscenata e filmata, di parti noiose che non vanno tagliate perché non è la sua macchina da presa a lavorare sugli oggetti inquadrati, ma l'esatto contrario: regista privo di sguardo, ma pieno di idee, persegue una trasparenza che in Boyhood risalta in modo sconcertante, così come la sua concezione di cinema partecipato, firmato a molteplici mani dai corpi che lo abitano, quasi espropriato dal possesso del regista (la leggenda vuole che Linklater e Ethan Hawke avessero stretto un accordo per cui, in caso di prematura morte del primo, il secondo avrebbe portato a termine le riprese). Ma Boyhood è anche un documentario sulla lavorazione della trilogia di Before Sunrise/Sunset/Midnight, un corollario espanso di quel primo tentativo di imprimere il tempo sullo schermo, 12 ore per volta, in quasi due decenni. Boyhood è il documentario che Linklater gira su se stesso e su tutta la sua opera, l'auto-omaggio a un modo di fare cinema estraneo sia al cinema commerciale sia a quello d'autore, in quella zona franca che da sempre il regista texano abita con sicumera. Un film in cui 11 anni e 3 mesi di lavorazione sublimano nell'effetto evanescente di una scrittura non scritta, di una regia che non dirige ma si lascia "spostare" avanti, di anno in anno, dal mero incedere fisiologico della cronologia (e suona paradossale ma non troppo che il film, in gara alla Berlinale 2014, abbia conquistato proprio l'Orso per il migliore regista): un documentario su come non girare un film.