Drammatico

BORDER

TRAMA

L’agente doganale Tina è nota per il suo olfatto straordinario; è come se riuscisse a fiutare la colpevolezza di chiunque nasconda qualcosa. Tuttavia, quando incontra Vore, un individuo sospetto, per la prima volta le sue abilità vengono messe alla prova. Tina percepisce che Vore nasconde qualcosa che lei tuttavia non riesce a identificare. Oltretutto, prova una certa attrazione verso di lui. Nel momento in cui Tina scopre l’identità di Vore tra i due si instaura un legame speciale che permetterà alla donna di scoprire anche la verità su se stessa. Tina, come Vore, non appartiene a questo mondo. Tutta la sua esistenza è stata costruita su un’enorme bugia e ora deve scegliere se continuare a vivere nella menzogna o accettare la sconvolgente rivelazione di Vore (dal pressbook).

RECENSIONI

Mettiamo subito in chiaro una cosa: è facilissimo scambiare Border - Creature di confine per un film sulla diversità, vale a dire per l’ennesimo apologo surreale consacrato alla celebrazione della differenza come valore supremo da difendere e proteggere a ogni costo. Considerata da una prospettiva simile, l'intera storia finirebbe per ridursi a questa paraboletta qui: Tina la freak, il mostriciattolo tarchiato e ingrugnito interpretato con protesico vigore da Eva Melander, si riconosce irreparabilmente diversa dagli altri e, dopo varie nonché tormentate peripezie, accetta la propria irriducibile diversità. Da qui il salto verso la più banale delle letture politiche (immigrati, extracomunitari, emarginati e via discriminando) sembrerebbe inevitabile: uno scivolo verso l’acquapark della sociologia da cineforum. Se così fosse, Border arriverebbe fuori tempo massimo e non sarebbe altro che il milionesimo caso di spreco di fotogrammi da salutare con imperturbabile indifferenza. Invece mi pare che i termini del discorso non siano questi e che l’impalcatura apparentemente convenzionale della storia basata sul racconto Gräns di John Lasciami entrare Ajvide Lindqvist segua un andamento leggermente ma decisivamente diverso.

Detto altrimenti, il secondo lungometraggio cinematografico di Ali Abbasi, che fin troppo ovviamente costituisce il secondo capitolo di un dittico aperto dal film di esordio Shelley del 2016 (“Considero di avere scritto entrambi i film, il primo con un’amica sceneggiatrice, Maren Louise Kàehne, il secondo con Isabella Eklöf”, ha dichiarato in un’intervista pubblicata su «Positif»), non intende rovesciare la diversità/deformità in punto di forza/superiorità (sarebbe così se Tina sposasse il progetto vendicativo e antiumano di Vore), ma si spinge ben oltre. Come? Facendo del personaggio di Tina/Reva (e il doppio nome lo attesta anagraficamente) una figura interstiziale, un soggetto che tenta di creare con fatica e dolore un’identità non imposta dal contesto, non conforme alle regole di vita dettate dalla comunità umana da una parte e utopisticamente rappresentate da quella finnica dei troll dall’altra. Tina/Reva si situa nella dimensione esistenziale del “non più, non ancora”: non più umana, non ancora troll. Tutto il suo sforzo, che inizia a delinearsi con chiarezza sempre maggiore nel terzo atto del film, si concentra sul divenire semplicemente se stessa.

Tina/Reva prende insomma le distanze tanto dal consorzio umano in cui ha vissuto a lungo quanto da quello dei troll vagheggiato e raffigurato da Vore (Eero Milonoff): nel primo legge menzogna, opportunismo e malvagità; nel secondo indovina spietatezza, brutalità e vendicatività. La reale difficoltà - per lei e, per interposto personaggio, per lo spettatore - risiede precisamente nella costruzione di un’identità autonoma e indipendente, lontana sia dalle lusinghe della comodità domestica sia dalle sirene della bestialità bellicosa. In questo senso Border - Creature di confine non è tanto un film sulla diversità, quanto, più precisamente e pungentemente, un film sulla singolarità: sul difficile e vulnerabile processo da attraversare per costruire un’identità non determinata dai modelli di riferimento (Ali Abbasi: “Per me il film non parla della contrapposizione Noi/Loro, ma di una persona che può e deve appropriarsi della sua vera identità. Voglio credere che tutti siamo in grado di scegliere chi essere”). Naturalmente anche questa idea della “vera identità” (virgolette di perplessità) mi pare tutt’altro che convincente e infrangibile, ma almeno ha il pregio di preservare un coefficiente di eccentricità sufficientemente accettabile.

Inoltre - e questo in ultima battuta mi pare l’aspetto più interessante del film - Border invera cinematograficamente la ricerca identitaria di Tina/Reva ritagliandosi uno stile tutto suo, distante tanto dalle pacate pensosità riflessive del cinema d’autore (in filigrana traspare di tanto in tanto il Dumont di L’umanità, ma forse sono io a vederlo da tutte le parti) quanto dal frenetico effettismo granguignolesco del cinema di genere (le pochissime occorrenze di violenza sono fulminee e sostanzialmente relegate nel fuori campo). A servire da bussola per questo stile non più di autore ma non ancora di genere è l’orientamento sensoriale: Border difatti non solo accoglie al suo interno l’elemento sensoriale come componente fondamentale della vicenda (l’olfatto emozionale di Tina/Reva, chiaramente), ma sparpaglia sul suo percorso continui stimoli sensoriali che punteggiano la progressione drammatica (Tina/Reva tocca gli insetti, palpa l’hiisit partorito da Vore, assaggia le larve che questi gli offre maliziosamente). Una costellazione sensoriale che finisce per conferire allo stile di Border quella singolarità che, al cinema come nella vita, è il bene più prezioso che sia dato possedere.

Un ringraziamento a Luca Pacilio per la segnalazione dell’intervista ad Ali Abbasi pubblicata su «Positif».