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BORAT – SEGUITO DI FILM CINEMA

TRAMA

Dopo 14 anni ai lavori forzati per il disonore arrecato al suo Paese con il suo primo film, il giornalista kazako Borat viene incaricato di ingraziarsi il presidente degli Stati Uniti Donald Trump regalando al suo vice Mike Pence la più grande star del Kazakistan, Johnny la scimmia. Borat ritorna negli States, ma, una volta arrivato il cargo con il quale far arrivare anche il primate, scopre che al suo interno vi è sua figlia Tutar, che ha seguito di nascosto il padre per poter coronare il suo sogno: trovare un uomo ricco che la renda felice come Trump ha fatto con Melania. Borat decide quindi di regalare Tutar a Pence per compiere la sua missione.

RECENSIONI

Due domande sorgono spontanee: ce lo meritiamo ancora, Borat? E, specularmente, c'è ancora bisogno di lui nel 2020? Per rispondere, dobbiamo tornare al 2006, anno del primo fulminante film diretto da Larry Charles. Anzi, in verità dobbiamo arretrare fino al 1998, quando Sacha Baron Cohen dà vita al rapper inglese di origini giamaicane Ali G. Una parodia, uno stereotipo vivente, un corto circuito avanguardista, realizzato in un momento storico di naïveté collettiva. Alle origini del reality e del mockumentary, era lecito domandarsi seriamente – ad esempio – quanto di vero ci fosse in The Blair Witch Project – Il mistero della strega di Blair (1999), e quanto Ali G prima e Borat poi fossero esseri umani realmente esistenti, complice anche la scarsa popolarità dell'attore che li interpretava. Col successivo Brüno (2007) abbiamo infine “mangiato la foglia”, e Baron Cohen è stato giocoforza costretto a pensionare Borat nel 2007, affermando che la sua presa in giro mascherata era diventata impossibile a causa della sua stessa fama e dell'istantanea capacità di controllo dell'identità dei motori di ricerca sul web. Il giornalista kazako Borat Margaret Sagdiyev è un Candido voltairiano che rivela inconsapevolmente il lato surreale del mondo, un improvvisato Alexis de Tocqueville che inquadra un tipo di uguaglianza immaginaria – nello specifico, quella americana – nonostante la palese disuguaglianza effettiva degli individui. Un pazzo depravato e narcisista, con difetti ed eccessi estremi e identici a quelli di bersagli che ovviamente non si accorgono di essere dileggiati. Alla prima domanda, quindi, rispondiamo sì: Borat ce lo meritiamo ancora. E questo Seguito di film cinema ce lo dimostra in ognuno dei suoi suoi corrosivi sketch, dalla canzone intonata al raduno di estrema destra al lockdown passato a casa dei cospirazionisti, dall'incontro con l'influencer Macy Chanel (che insegna essenzialmente come le donne debbano sedurre gli uomini) al ballo di alta classe alla Hay House. Tutte scene assurde e improbabili, e tutte scene – stando alle dichiarazioni del regista Jason Woliner e dello stesso protagonista – vere, girate con la totale inconsapevolezza dei raggirati.

Una questione, quella del mix equivoco tra realtà e finzione, che ci porta indirettamente al secondo interrogativo. Per riesumare il suo personaggio dopo tre lustri, Baron Cohen opta per una doppia soluzione: da un lato lancia una galleria di travestimenti ridicoli e paradossali per rendersi meno riconoscibile (il bifolco, il costume a là Donald Trump, la caricatura dell'ebreo con ali da pipistrello e naso da Pinocchio) e poter agire ancora in prima persona; dall'altro introduce un alter ego femminile, Tutar, sua fantomatica figlia 15enne e “tangente umana” da consegnare a Mike Pence. È Tutar l'ariete di sfondamento di Borat 2, non (più) Borat. Tutar cavalca il #metoo e passa da ragazza a cui – nel suo Paese – non è permesso leggere, imparare, guidare o fare qualunque altra cosa a donna che scopre l'indipendenza e la parità tra i sessi, rigirando pro domo sua i peggiori capisaldi del maschilismo. Fino all'incontro con l'ex sindaco di New York Rudolph Giuliani, in cui il consigliere repubblicano flirta in modo inquietante con lei dopo aver appreso il suo interesse per gli uomini più anziani. Giuliani è una maschera: viola attorno alla bocca, con svariate nuance di rosa sparse sul volto, a suggerire un disastro di trucco. Come accaduto qualche settimana fa durante una conferenza stampa sulle presunte frodi elettorali, in cui, complice il caldo, lungo le tempie dell'avvocato sono calati due impietosi fili di tinta per capelli. Ecco il punto: davanti ai nostri occhi il re è nudo, ma “oggi questa nudità (culturale, di pensiero, di idee) il re la esibisce lui per primo e la getta in faccia a tutti, nel tripudio di supporter e simpatizzanti” (Rocco Moccagatta, Film Tv). Non importa neanche più tanto che ciò avvenga in modo consapevole o meno, quel tipo di pudore e vergogna è stato ormai ampiamente superato. Per questo, oggi, il gesto provocatorio di Borat appare qua e là superato, inadeguato. Perché la realtà non solo ha superato la fantasia, ma si è sostituita ad essa. E la satira di Borat rischia di trasformarsi in giochino sì divertente, ma fine a se stesso.