TRAMA
Il reporter Kazako Borat Sagdiyev viene mandato negli Stati Uniti per realizzare un documentario.
RECENSIONI
La lingua
A mo’ di premessa, ovvia quanto necessaria, mi preme dichiararmi da subito dolorosamente consapevole dei rischi che comporta l’esprimere un giudizio su un film come Borat doppiato. I pochi stralci di film che ho potuto ascoltare in v.o. mi fanno intuire quanto di lost in translation ci sia in termini di maccheronismi e giochi di parole ma anche di performance attoriale vera e propria, dato che Pino Insegno sembra aver optato per uno schietto ivandraghese che, comunque la si voglia mettere, non rende giustizia al lavoro di Sacha Baron Cohen. Aggiungo che l’effetto copia-incolla vocale di certo non giova a un contesto pseudo-documentaristico che fa delle reali(stiche) reazioni in presa diretta dei protagonisti un suo punto di forza.
La forma
La prima considerazione, credo attendibile, riguarda invece le falle della messinscena – ossia – le incoerenti modalità tecniche di rappresentazione del falso documentario. Tali incoerenze interne si spalmano su entrambi i livelli della rappresentazione: a un primo livello, il patto con lo spettatore prevede(rebbe) che quello che ci viene presentato è un documentario che vede coinvolti tre attori principali: il reporter Borat, il produttore Ken e un ipotetico cameraman. Il punto è che il girato tra(sgre)disce a più riprese queste premesse, fornendo spesso una costruzione che denuncia la (narrativamente ingiustificata) presenza di altri punti di vista ben orchestrati, tecnicamente non riconducubili alla scalcinata troupe kazaka. Non è questione da poco, soprattutto perché tale stortura si ripercuote sul secondo livello rappresentativo: lo spettatore, ovviamente, sa che il documentario che sta guardando è “falso” ma sa anche che tale “falso documentario” dovrebbe essere in ultima istanza “vero” – ossia – che Baron Cohen nella parte di Borat dovrebbe veramente aver finto di girare un documentario, coinvolgendo ignari cittadini con le sue provocazioni, e che dunque quella che stiamo guardando è veramente una specie di lunga candid camera, autentica conditio sine qua non è impossibile trovare il film veramente divertente. Ma le cose non stanno esattamente così: oltre alle parti schiettamente fiction -ali (quelle che vedono coinvolti gli unici due attori protagonisti nella loro “intimità”) ce ne sono altre, presunte candid, che puzzano decisamente di bruciato, spesso perché raccordate alle prime in maniera sospetta (si veda la sequenza nel Bed&Breakfast, in cui l’arrivo dei teoricamente ignari padroni di casa armati di sandwich è ripreso sia dall’esterno che dall’interno della camera di Borat e Ken, guarda caso nel momento esatto in cui i due si accingono a fuggire dalla finestra… mmm…). Se a questo si aggiunge che lo stesso Baron Cohen si è abbandonato a qualche confessione (la scena di distruzione all’interno del negozio di antiquariato è certificata come “falsa”) si ottiene un quadro un po’… “sospetto” che nuoce all’integrità dell’operazione, dunque alla sua capacità di divertire e, in definitiva, alla sua riuscita complessiva.
La sostanza
Resta comunque il fatto che è il cuore stesso di Borat a dimostrarsi inconsistente, nonostante le sue malcelate ambizioni sociopolitiche. Lo sbandierato cinismo, infatti, l’estrema scorrettezza politica, la presunta ferocia con cui dovrebbe smascherare vizi, razzismi e ipocrisie americani sono solo specchietti per le allodole. Il personaggio di Borat si limita a fare il cretino, e a farsi trattare giustamente come tale, senza “significare” alcunché; Quando chiede al venditore d’auto se il SUV che vuole comprare riporterà molti danni, a seguito di un ipotetico e volontario scontro con un gruppo di zingari, questi gli risponde come un bravo e smaliziato venditore d’auto dovrebbe fare con un acquirente irrimediabilmente cretino: assecondandolo (e sorridendo già al pensiero di avere un bell’aneddoto da raccontare alla prossima cena con gli amici). Similmente, il gestore dell’armeria, alla domanda “quale pistola mi consiglia per sparare a un ebreo?”, dopo qualche secondo di silenzio in cui valuta se vale la pena o meno di replicare per le rime, opta per un più saggio “una 9mm” e chi s’è visto s’è visto. Se si va a una serata dedicata al bon ton e ci si presenta a tavola accompagnati da una prostituta, con i propri escrementi in una busta di plastica, non è naturale e per nulla “rivelatorio” vedersi allontanati per manifesti e maldestri intenti provocatori? E cosa dire del colloquio con le femministe? C’è da stupirsi se dopo ripetuti insulti e insinuazioni dell’inutile idiota (tipo: “le donne hanno il cervello grande come quello di uno scoiattolo”), le tre gentili signore decidono di interrompere il confronto? Episodi del genere, e ho scelto alcuni dei più presunti “cattivi” e “irriverenti”, dimostrano quanto Borat si riveli operina affatto innocua, con un protagonista che al suo meglio strappa due risate comportandosi da Jackass ma che, in quanto a “sostanza”, vola a quote infime e guarda un qualunque Enrico Lucci dal basso in alto.
La risposta è nel successo, enorme e superiore alle aspettative, che personaggio e relativo lungometraggio hanno avuto negli Stati Uniti. Ma, complice un'azzeccatissima campagna pubblicitaria, Borat ha conquistato, almeno numericamente, anche l'Italia. Circondati da veline desnude e sovrapponibili l'apparizione del "nostro", smutandato e ammiccante, dai manifesti di tutta la penisola, ha infatti destato parecchia curiosità (gli incassi del primo week-end di programmazione lo hanno subito collocato al vertice del box-office nazionale). Al di là della forza del marketing, però, chi non conosce le gesta del londinese ed ebreo Sacha Baron Cohen nel televisivo "Ali G Show" e si è disinteressato dell'omonimo film uscito in sordina nel 2002, che strumenti ha per apprezzare l'improbabile giornalista del Kazakistan incaricato di realizzare un documentario su usi e costumi degli Stati Uniti d'America? Quelli cinematografici non sono dei più attendibili, perché lo spettatore si trova davanti a una successione di gag senza riuscire mai a capirne la costruzione: sono candid camera in cui tutto è spontaneo e improvvisato? Si tratta di situazioni reali che Cohen sconvolge con l'estro del suo personaggio? È tutta fiction con una rigida sceneggiatura e comprimari adeguatamente istruiti? La sensazione è che il calcolo sia presente in gran parte delle sequenze, ma l'assenza di un punto di vista in grado di chiarire l'interrogativo limita per forza di cose il coinvolgimento. Anche gli strumenti culturali non offrono particolari appigli. Borat, infatti, non mette alla berlina alcunché. Si limita ad andare contro l'agire, più che il pensare, comune facendosi vanto del suo essere rumorosamente maschilista, erotomane, antisemita, razzista, sboccato, osceno e chi più ne ha più ne metta. Ma il suo vagare scoordinato ed esagitato, attraverso gag affiancate nel più televisivo dei modi, non lascia il segno sperato. Di positivo c'è il tentativo di uscire dai canoni della correttezza, e di una scorrettezza sotto controllo, con un'attenta ricerca del cattivo gusto e dello sberleffo gratuito, ma l'impatto si ferma allo scatologico e allo scurrile, senza rivestirsi di altri significati. Per intenderci, alla fine gli americani non ne escono assolutamente a pezzi, anzi, con reazioni fin troppo composte di fronte all'invasiva impertinenza del protagonista. Più feroce, e discutibile, il pressappochismo con cui la Romania diventa un neandertaliano Kazakistan (la vera provocazione è scegliere, per il tutt'altro che virtuoso protagonista, un paese di origine davvero esistente). Ma da qui a fare di Borat l'emblema di una sottile critica al sistema capitalistico e di una società, quella sì mostruosa, ne passa! Cosa più grave, si ride molto meno del previsto (il doppiaggio sicuramente non aiuta) e la seconda parte ha un vistoso cedimento strutturale, finendo per mostrare tutti i limiti di un'operazione più apprezzabile nelle intenzioni che nel risultato. L'unica vera sfida, a quanto pare vinta, è avere convinto senza un valido motivo buona parte del pianeta a radunarsi davanti a un grande schermo, pagando pure 7 o 8 euro. Ennesima riprova che un fenomeno di "costume", ancorché perizomato, non è per forza cinema.