BLOODY TIE

Anno Produzione2006

TRAMA

Busan, 1997, piena crisi economica. Lo spregiudicato dealer Lee Sang-do e il brutale detective Doh Jing-wang si trovano coinvolti in un affare di droga che li costringe ad allearsi. Entrambi hanno un conto in sospeso col passato. Un passato di morte.

RECENSIONI

Busan noir, la faccia lercia e nascosta della Corea, il luogo dove si lavano i panni sporchi di Seoul. Questo il senso del polar di Choi Ho, poliziesco torbido e disilluso in cui l’estetica volgarotta e cablata su standard piuttosto rozzi “serve” effettivamente (per una volta la trita formula della funzionalità non è fuori luogo) a graffiare lo smalto delle apparenze. Non è vero che tutti tradiscono tutti nell’universo del polar: se così fosse la tensione tra ordine e disordine, autentico fulcro (est)etico del genere, verrebbe a cadere. È più aderente alla sua realtà ideologica un conflitto costante tra rispetto delle regole (spesso e volentieri collocate al di fuori della legalità) e violazione dei patti. Vi è un dissidio permanente tra integrità interiore (vissuta dal personaggio sotto forma di affetti familiari o legami sentimentali) e adesione alle regole esterne (che queste siano dettate dal corpo di polizia o dal milieu è sostanzialmente la stessa cosa). Il polar è prima di tutto un genere interiore: è iscrizione della Legge nella coscienza emotiva del personaggio. È questa la sua esattezza, la sua pungente drammaticità. La decisione di tradire costituisce immancabilmente motivo di sofferenza e tormentata riflessione, anche quando si traduce in azione immediata: i contraccolpi sulla coscienza si faranno sentire più tardi, inesorabilmente. Il polar è morale.
Tutte considerazioni che scaturiscono vedendo Bloody Tie, terzo lungometraggio di Choi Ho (classe 1967), al suo attivo due commedie sentimentali: Bye June (1998) e Who Are You? (2000). Qui il cineasta diplomato alla ChungAng University di Seoul cambia decisamente rotta, immergendosi totalmente nella palude di Busan e mostrando una padronanza da veterano nella manipolazione dei codici del genere. I personaggi principali, lo spregiudicato dealer Lee Sang-do e il brutale detective Doh Jing-wang (interpretati rispettivamente da Ryoo Seung-beum e Hwang Jeong-min, in due prove semplicemente strepitose) sono individui scossi da tormenti interiori: il primo ha perso la madre e l’innocenza a causa dell’attività dello zio spacciatore Taek-jo, il secondo ha perso il collega e amico Choi per mano del boss della droga Jang-chul. Ciò che li spinge ad agire (e a tradire) è questo trauma conficcato nel loro vissuto: entrambi vogliono più o meno consapevolmente ribadire il proprio diritto a vivere felicemente, il primo prendendo definitivamente le distanze dal maldestro esempio dello zio, il secondo vendicando la morte dell’amico e collega. Oltre ai due, ovviamente, una femmina bellissima: Ji-young, ex donna di uno spacciatore venduto da Lee alla polizia e sottratta dalla tossicodipendenza dallo stesso Lee. Il polar è morale.
Busan come antiSeoul dicevamo. E in effetti la seconda città per numero di abitanti e importanza economica della Corea del Sud sommerge con le sue acque limacciose e insanguinate le traiettorie dei personaggi. Una palude più che una città, una palude impossibile da attraversare senza esserne corrotti e inghiottiti. La crisi economica del 1997 (dovuta alle ingerenze dell’International Monetary Found) ha effetti a catena: l’aumento della povertà, l’incremento dell’uso di droga (crystal meth in testa) e, inevitabilmente, il deterioramento della realtà urbana. Metropoli meridionale, Busan è il classico porto delle nebbie, luogo di traffici, scambi e consegne illegali. Per tenere pulita Seoul, il procuratore distrettuale si impegna a salvaguardarvi l’attività del boss della droga Jang-chul. I rifiuti di Seoul finiscono a Busan, i rapporti di potere e i territori vanno ridisegnati: sia Lee Sang-do che Doh Jing-wang si trovano presi in questa morsa letale. Fanno di tutto per salvarsi, per difendere la propria integrità, per sopravvivere. E Choi Ho mette in scena il loro convulso lottare con uno stile antiestetizzante, controtipo negativo della sontuosità visiva sciorinata da Kim Jee-woon in A Bittersweet Life. Se Kim magnificava la dolcezza rovinosa dell’infatuazione in una Seoul tirata a lucido, Choi infanga di zoom, split-screen e inquadrature sbilanciate la bruciante sconfitta della giustizia in una Busan di cemento e catrame. Il polar è morale.