TRAMA
La vita (reinventata) di Marilyn: dalla sua infanzia come Norma Jeane, attraverso l’ascesa alla fama e i legami sentimentali…
RECENSIONI
Chi rende culto agli spettri e agli altri spiriti
si unirà a questi esseri.”
Bhagavad Gītā
“Norma Jeane, guarda! Quell’uomo è tuo padre”. È questo il leitmotiv che scandisce l’intera esistenza di Marilyn; l’eco perpetuo di un fantasma, di un ritratto al quale non si può conferire corpo.
Andrew Dominik, fin dall’inizio, sceglie di inquadrare i tratti essenziali della diva isolando la radice emotiva che fonda la personalità di quest’ultima, radice che trova corrispondenza in una figurina priva di sostanza, in un’idea collocata tra sogno e desiderio; oppure, a voler restare in superficie, in un’elementare, banalissima immagine-cellula che si costituirà come sostrato di quell’enorme cattedrale di segni iconici che è Blonde.
Restando fedele a quest’idea di partenza per tutto il film, il cineasta australiano costruisce, con estrema coerenza, una sofisticatissima rifrazione multiforme di codici e segni appartenenti all’immaginario hollywoodiano, arrivando progressivamente alla loro de-costruzione e scomposizione.
Dal punto di vista strettamente stilistico-formale, il meccanismo di cui sopra prende forma per mezzo della manipolazione di tre elementi essenziali: colore, formato e corpo attoriale.
Attraverso l’alternanza colore/bianco e nero, infatti, Dominik distrugge la linea di confine tra mito e Storia, tra biopic e romanzo: a questo proposito, il balzo in avanti temporale che proietta Norma dall’infanzia alle copertine di Glance e Pin-Ups pone l’accento sul processo di totale identificazione tra corpo fisico e sostanza immaginaria, offuscando in questo modo la nostra capacità di distinguere l’elemento biografico dall’evento spettacolare.
In seconda istanza, i continui cambi di formato, senza apparente soluzione di continuità, mettono lo spettatore di fronte a un microcosmo di simulacri, di corpi inghiottiti e manipolati, di personalità ridotte dal dispositivo a meri oggetti da consumare.
Dalla parte opposta, però, c’è appunto Marilyn e il suo corpo attoriale, catalizzatore di tutti gli infiniti segni che lo circondano e manifestazione vivente di un’essenza puramente ideale, di un’energia auto-costituita in grado di attrarre a sé le innumerevoli propaggini immaginifiche che la attraversano (per dirla con Charles Chaplin Jr: “È come se tu ti fossi messa al mondo da sola”). In questo modo, Dominik si muove sull’asse dicotomico che intercorre tra Hollywood, con la sua vocazione vampiresca, e Marilyn, figura incredibilmente abile nell’edificare il proprio mito giocando di riflesso e trasformando in fenomeno spettacolare un’infinita serie di esperienze/eventi/proiezioni. Nella scena del provino per Don’t Bother to Knock, ad esempio, si riconoscono in maniera evidente alcuni elementi che incarnano questa tensione: il parallelismo con la figura materna (interpretata da Julianne Nicholson), la finzione architettata ad hoc dalla Monroe per conquistare favori (al produttore, Marilyn dirà che la scena che stanno provando le ricorda Dostoevskij) e, infine, l’evocazione dell’immagine del padre. Strati di immagini si sovrappongono quindi di continuo, sostituendo al quotidiano un universo puramente intellegibile e sospeso.
Un altro momento rivelatore, in questo senso, è lo stacco di montaggio che mette in relazione le mani della madre di Norma, sfregate tra loro nervosamente all’interno dell’ospedale psichiatrico, con quelle di Marilyn, sul set del succitato film, che ripete il medesimo gesto. La sofferenza sul piano reale viene assorbita dall’attrice nello spazio della finzione, lasciando però la figura di Norma in perenne conflitto tra l’elaborazione del dolore e la manipolazione dello stesso sulla scena.
Questa fusione tra corpi, immagini e materia filmica si concentra magistralmente nella performance di Ana de Armas, vero e proprio avatar (inteso nel suo senso letterale, ovvero “veicolo di manifestazione”) di tutti i processi di costruzione e distruzione della figura della diva e, per converso, perfetta sublimazione dell’asfissiante gabbia di immagini ordita da Dominik.
In questo gioco di superfici, tutto resta volutamente vincolato ai modelli di rappresentazione o, per dirlo con maggior precisione, a un sistema in cui ogni ambito dell’esistente è totalizzato da icone e proiezioni infinite di esse. Perfino il figlio immaginato da Marilyn, ovvero l’immagine kitsch di un feto, diventa appunto solo un’immagine, un oggetto puramente mentale perfettamente armonizzato al proprio contenitore e diretta emanazione di un universo abitato esclusivamente da spettri.
A questo proposito, le relazioni sentimentali non possono che configurarsi come fall out naturale del processo in atto: a partire da Joe DiMaggio (Bobby Cannavale), che pretende di appiattire Norma a un’ennesima, stereotipata immagine, passando per Arthur Miller (Adrien Brody), che vede nella diva un succedaneo di lusso delle proprie fantasie nostalgiche, lo spettatore assiste a un apparente spazio fuori-scena che assume invece le proporzioni di perfetto duplicato di quel mondo illusorio onnipresente che è la macchina dello spettacolo.
E così, l’ultima immagine di Blonde, un quadro che cerca goffamente di comporsi, per timidi e ripetuti tentativi, altro non né se non l’emblema perfettamente cristallizzato di un’opera che, in maniera estenuante e radicale, ci conduce in un universo colonizzato da segni, rappresentazioni, immagini e fantasmi.