TRAMA
Un’automobile è ferma al semaforo verde: improvvisamente il guidatore ha perso la vista, non è in grado di ripartire. Inizia l’epidemia.
RECENSIONI
La sfida di Fernando Meirelles si compie all’insegna del rispetto letterale del romanzo: il colosso Cecità, per molti vetta del Nobel portoghese, viene ripercorso tappa per tappa nella sua declinazione in immagini. A partire dall’inizio, Blindness ricalca l’apertura del testo: la bella metafora del semaforo (la cecità dell’autista “ingorga” la società industriale; non vedere i colori rende impossibile la convivenza comunitaria) introduce alla definizione della città anonima e alla caratterizzazione delle figure senza nome. E’ riprodotto il contenitore di simboli di Saramago: la “cecità bianca” e non nera, che suggerisce una non vista autoindotta (l’umanità si copre gli occhi da sola); il governo che davanti all’emergenza si riscopre autoritario; la nuova condizione dei ciechi dentro l’ex manicomio, segnata dalla confusione dei ruoli (i termini ciechi/pazzi spesso si scambiano nel testo); la democrazia fallita quindi il passaggio al regime controllato da un capo/dittatore; il graduale scivolamento nell’homo homini lupus e l’atto di violenza che lo spezza.
Al di là delle apparenze, la prosa anti-sintattica di Saramago suona adeguata a un linguaggio cinematografico classico: lo screenplayer Don McKellar scioglie i discorsi dei personaggi trasformandoli in linee di dialogo semplici, spesso testuali, confermando che il romanzo offre già una serie di scene facilmente smontabili e trasferibili sullo schermo. La trasposizione dell’allegoria sfiora tutti gli aspetti, dai dilemmi morali al lato orwelliano, dal sottotesto politico all’ossimoro dell’“amara speranza” nel finale. Alla luce di questa esattezza - dunque - diventa fondamentale l’invenzione e la costruzione: il regista di City of God sceglie espedienti leggibili e diretti, con equa ripartizione tra caratteri e particolare insistenza sull’aspetto concreto e materiale, l’interazione tra corpi e i loro percorsi nella condizione di cecità. Meirelles segue le curve della trama a risultati alterni, talvolta fallimentari, come nella resa dell’ironia nascosta nel tessuto drammatico, intavolata in sequenze facili e grossolane (l’esuberanza del Ladro verso le donne).
Non mancano poi le sottolineature visive, che riducono l’imprevedibilità della storia: per tutte le diverse inquadrature “preventive” alle forbici come presagio del delitto. Dall’altra parte minime sono le intuizioni personali introdotte nella partitura, come il primo cieco che riacquista la vista mentre il caffè nero squarcia la tazza di latte bianco. L’autore infine sfronda le ultime pagine, evita la guarigione degli altri personaggi temendo forse un eccessivo happy ending; in compenso torna letterale nel finale, con la “finta cecità” della Moglie del dottore che chiude la partita. Proponendo gli stessi luoghi, figure e situazioni, il film è una rappresentazione formale del romanzo: i meriti indubbi sono tutti dello scrittore, non del regista, che dirige un cast mediamente spaesato (anche Julianne Moore) e ottiene una versione scolastica, un contagion più colto e allusivo per il grande pubblico. Non una re-interpretazione, ma solo una corretta impaginazione del testo di riferimento.
Co-produzione Brasile-Giappone-Canada (quest’ultima rappresentata dallo sceneggiatore Don McKellar, dimenticato regista di Last Night, altra science fiction ad alto tasso umano), in cui Fernando Meirelles traduce il romanzo “Cecità” (1995) del Premio Nobel José Saramago e punta al mercato internazionale con un cast di richiamo. Dello scrittore, in cui l’evento fantastico era mezzo per un’allegoria e uno studio dell’essere umano, pare ereditare solo il canovaccio, lo stilema che omette i nomi propri dei personaggi e l’assenza di indicazioni precise sul luogo dove si svolgono gli eventi. L’Arte la relega in un’elegante regia che richiama i dipinti di Lucian Freud, e nella rappresentazione del “male bianco” (il colore delle soggettive cieche) con raccordi e fotografia sovresposti. Nella parte iniziale, rincorrendo i tocchi ironici di Saramago, mostra la corda nel dosaggio di tensione da film allarmista e ridicolo involontario dettato da scene buffe, come quella dei ciechi in fila indiana che inciampano ovunque: ma le scene a seguire sono appassionanti, a partire da quella ambientata nell’ex-manicomio scelto come edificio di quarantena, microcosmo dei rapporti di potere fra i gruppi sociali, fino alla fuga all’aperto con scenari da I Sopravvissuti. L’operazione è interessante, ma non salta fuori, come Meirelles e McKellar vorrebbero, la riflessione di spessore sulla natura umana, e l’allegoria della cecità come “terzo occhio” per guardarsi dentro (l’umanità è cieca per la sua indifferenza verso gli altri) resta più detta che esperita.