TRAMA
2049. L’agente K è un replicante di nuova generazione che dà la caccia ai vecchi replicanti Nexus.
RECENSIONI
Il sequel di Blade Runner. Sembrava quasi uno scherzo, il film (di fantascienza) d’Autore (quasi per antonomasia, dopo 2001) non dovrebbe avere un secondo capitolo. Non è questa la sede – o forse sì – ma sarebbe difficile enucleare i meriti oggettivi, l’aura di capolavoro, l’influenza/incidenza sul cinema successivo, la mitopoietica che ruota intorno al film di Ridley Scott. Blade Runner 2? La lesa maestà è dietro l’angolo. A Villeneuve hanno dato una bella pecora elettrica da tosare. Ma hanno scelto, forse, la persona giusta. Un regista, cioè, capace di accontentare molti palati contemporaneamente e, soprattutto, di vendere bene, con piglio autoriale, una materia cinematografica non sempre così alta come sembra ma che, comunque, viene maneggiata con sicurezza, padronanza del mezzo e idee (apparentemente) chiare. Con una novità: qui il regista canadese si (di)mostra anche un’autorità in fatto di dissimulato fan-service da cult movie. Blade Runner 2049 tenta di riprodurre (fanta)scientificamente, quindi, le atmosfere seriose e sospese, da film evento, del prototipo, ne ripropone alcune immagini/sequenze iconiche e anche le progressioni drammatiche dei due film sono in massima parte sovrapponibili, finale “sacrificale” compreso (ma senza bastioni di Orione né porte di Tannhäuser). Di suo, Villeneuve ci mette una maggiore incidenza degli elementi esplicitamente visionari, che danno al film un fisionomia spesso (fin troppo) metafisica (la Las Vegas / Deserto Rosso con le enormi statue che sembrano una versione adulta ed eroticizzata di quelle viste ne La Storia Infinita, citazione tra le tante) e che gettano un po’ di ottimo fumo (rectius: sabbia) negli occhi dello spettatore, anche per gentile concessione di Roger Deakins.
Il problema qual è? Che Blade Runner 2049 è un film fondamentalmente semplice da un punto di vista “narrativo” (in senso ampio) ma problematizzato per vie traverse. E tirato per le lunghe. Per la maggior parte del tempo, si limita a ribadire concetti già enucleati, meglio, 35 anni fa, fingendo di alzare il tiro (il miracolo, la capacità dei replicanti di generare) quando sta semplicemente gonfiando il tutto in maniera un po’ artificiosa e pretenziosa (emblematico il personaggio di Jared Leto) e cerca di omaggiare e insieme reinventare tutto l’immaginario retrofuturista dell’originale citando alla lettera o introducendo semplici slittamenti/aggiornamenti [gli ologrammi-quasi-materici-con-(auto)coscienza sono, concettualmente, i nuovi Nexus dell’era della dematerializzazione avatar-iana]. I 163 minuti scorrono via così, (fin troppo) lenti, compassati, eleganti e controllatissimi, con appena qualche accenno action a tempo scaduto, atto insieme dovuto e decontestualizzato/decontestualizzante. Si finge di non annoiarsi perché il film di Villeneuve, come capita spesso (Sicario, Arrival), ha tutti i crismi del bel film senza diventarlo mai e perché, in fondo, è Blade Runner, dovrebbe interessarci. Dovrebbe. E perché, in quanto, Blade Runner, incoraggia (sovra)interpretazioni innestate sui concetti di film replica(nte) e inter-extra-meta-testualità/medialità. Tutte letture più che legittime. Tutte interessanti. Più interessanti del film stesso, però. Zimmer e Wallfisch funzionano quando fanno affiorare Vangelis, il credito che si è guadagnato Ryan Gosling rimane un mistero poco sondabile, Harrison Ford è, ormai, la nuova icona dell’invecchiamento intra-extra-diegetico.
Una progenie, specchiata nella trama, difficile da replicare. Sul mercato, per cinema figurativo ed evocativo, Denis Villeneuve era la scelta ideale per dare un seguito al capolavoro di Ridley Scott (produttore esecutivo): ha avuto totale libertà di manovra, prendendo le mosse dal final cut del 2007 di Blade Runner. Il soggetto degno di essere filmato l’ha fornito lo sceneggiatore dell’originale Hampton Fancher, un copione in forma di romanzo breve, con uno iato di 30 anni colmato da tre cortometraggi che hanno preceduto l’uscita del film: Black out: 2022 di Shinichiro Watanabe, 2036: Nexus dawn (dove appare il cieco fabbricatore di androidi di Jared Leto) e 2048: Nowhere to run di Luke Scott (con l’androide di Dave Bautista). La sceneggiatura è di Michael Green, creatore del sottovalutato serial Kings (fra le altre cose), ma il deus ex machina è Villeneuve con un’opera superba, solo penalizzata dalla natura di seguito, con universo più che saccheggiato e, qui, agganciato ma non replicato pedissequamente, alla stregua delle melodie di Vangelis, richiamate ma stravolte dal tappeto sonoro di Hans Zimmer e Benjamin Wallfisch. Anche la fotografia di Roger Deakins svicola, preferendo colori sabbiosi, reiterando una Los Angeles impregnata di fumi e luci al neon ma non esaurendosi in essa: la sua è arte pura al servizio dell’elemento più strabiliante del film, le ambientazioni, dagli headquarters piramidali di Wallace, ascetici fra legno e riflessi acquatici, all’albergo in arancione della zona radioattiva. Villeneuve non dimentica gli altri due elementi, umanistici, che facevano grande l’opera di Scott: il romanticismo, in questo caso del Blade Runner per un software casalingo (adorabile Ana De Armas) e la filosofia esistenziale sui replicanti, nel motto che sono nati e non creati.