Drammatico, Recensione

BIUTIFUL

TRAMA

Barcellona, quartiere di santa Coloma. A Uxbal, padre di due bambini e separato da una moglie mentalmente disturbata, viene diagnosticato un tumore in stadio avanzato. Nelle poche settimane di vita che gli restano, l’uomo, dotato della facoltà di entrare in contatto con le anime dei defunti, dovrà provvedere a non lasciare conti in sospeso e pensare al futuro della famiglia.

RECENSIONI

I primi passi alla regia di Alejandro González Iñárritu senza le stampelle dello sceneggiatore Guillermo Arriaga sono lineari e traballanti al tempo stesso: accantonate le serpentine narrative e cron(olog)iche di Amores perros, 21 grammi e Babel (secondo chi scrive il film più riuscito della trilogia sulla morte), il quarantasettenne cineasta messicano concepisce una pellicola interamente basata su un unico personaggio, un individuo partorito dall'area periferica di Santa Coloma e perfettamente integrato nel fermento di attività clandestine e credenze popolari del quartiere multietnico di Barcellona.

L'obiettivo di Biutiful è chiaro: mostrare la parabola di un uomo a partire dal suo punto terminale, mettere in scena la paradossale coesistenza di vita e morte nel destino di Uxbal (Javier Bardem) sullo sfondo di un tessuto suburbano intessuto di forti tensioni sociali (corruzione poliziesca, sfruttamento degli immigrati). Cornice prescelta per raccontare questo intreccio di contraddizioni è la tragedia: la malattia diagnosticata costringe Uxbal a misurarsi con l'inesorabilità del fato e con l'autonomia limitata del libero arbitrio, ponendolo di fronte alla responsabilità delle scelte (sia quelle che riguardano la sua famiglia sia quelle che ricadono sulla comunità del quartiere).

Ma se l'intento s'impone con palmare evidenza, non altrettanto incisivo risulta il partito stilistico adottato: autore della sceneggiatura insieme ad Armando Bo e Nicolás Giacobone (regista pubblicitario il primo, scrittore emergente il secondo), Iñárritu oscilla sensibilmente tra un approccio character-driven mirato ad assecondare la dimensione di apologo catartico e un'impronta visionaria tesa a valorizzare l'intensità delle percezioni metafisiche e delle suggestioni ambientali. Lungi dal saldarsi, le due anime della pellicola si alternano meccanicamente senza compenetrarsi e integrarsi (prova ne è la ripetizione pressoché letterale del prologo nel ridondante epilogo: involontaria dichiarazione di debolezza strutturale).

Per quanto gli sprazzi soprannaturali e gli squarci metropolitani possiedano una loro pregnanza d'immagine (si pensi alla sequenza in discoteca o a quella nella cantina del laboratorio cinese), l'esilità dei personaggi secondari (su tutti quello della moglie disturbata Marambra) e il grossolano simbolismo apotropaico (le pietre protettive affidate ai bambini, la scatola di luce come balordo espediente terapeutico) denunciano l'incompiutezza di un film che, al netto della dolente interpretazione di un Bardem perfettamente in parte, vacilla inconcludente tra parabola tragica e fenomenologia sensitiva. Arrancando.

Biutiful di Alejandro Gonzales Iñarritu rimane addosso e colpisce più per la sensazione che lascia che per la sua compiutezza artistica. Iñarritu scava dolorosamente nell'uomo - e nello spettatore - fino a trovare la parte più nascosta, inspiegabile e meravigliosa che c'è in lui: come già in 21 grammi (2003) e Babel (2006), l'autore esplora il legame tra padre e figlio, assumendo stavolta lo sguardo di quest'ultimo e svestendo i panni del genitore (ne è prova la dedica finale che il regista fa al padre).  Uxbal (Javier Bardem) è un papà, è un uomo malato alla fine dei suoi giorni e ha un dono: può parlare con i defunti e aiutarli nel trapasso. Iñarritu non spiega le origini di questo dono, ma in realtà esse sono lì, davanti ai nostri occhi: Uxbal non ha mai conosciuto il padre, perché è morto prima che lui nascesse. È come se il protagonista fosse stato concepito ereditando sia la vita della madre che la morte del padre. Il suo legame sofferto e affascinante con la morte è proprio la volontà di saldare il vincolo con il genitore mai conosciuto. Iñarritu, sulle orme di Uxbal, padre morente e figlio a metà, ci trascina in una storia torbida e delicata, cruda e sconvolgente, un viaggio infernale che, però, alla fine mostra la luce. In mezzo a una candida distesa di neve, dove tutto si compie, si fa avanti un ragazzo, appena ventenne: Uxbal incontra suo padre che, inconcepibilmente, è molto più giovane di lui. I due sorridono, fanno un gioco. Proprio a questo punto il meraviglioso si manifesta: l'unica realtà inconfutabile per ogni individuo è il legame di carne e sangue con chi lo ha generato.
Uxbal abbraccia i suoi bambini, li stringe fin quasi a stritolarli: vuole essere tutt'uno con loro, come una madre, l'unica che ha il privilegio di tenere dentro di sé il proprio figlio. Paternità e maternità, poste sullo stesso piano, sono ovunque nel film, interrazziali e universali: la donna africana allatta il neonato, la donna cinese porta il figlio sulle spalle, Uxbal accudisce i suoi bambini; e ovunque sono le aberrazioni che mai dovrebbero mostrarsi: genitori che seppelliscono i figli, figli più vecchi dei genitori, madri e figli che trovano la morte nello stesso momento. Iñarritu è ossessionato dall'affetto che prova per i suoi bambini ed è terrorizzato dalla morte, l'unica realtà che può spezzare definitivamente un legame così forte e autentico. In realtà, con Biutiful, il regista sembra raggiungere la catarsi: la morte non sarà di certo la fine del legame genitore-figlio. Non si smette mai di essere genitori o figli di qualcuno. E un figlio a sua volta diverrà padre, generando un filo rosso che unisce gli uomini oltre il tempo e la morte. Per più di due ore, l'autore, allungando sin troppo i tempi, si prende la libertà di guardare in faccia il dolore, di riflettere e di superare la paura. Iñarritu si lascia andare, realizzando forse il suo film più sentito e più sincero; non eccede nei virtuosismi del montaggio, come fatto nei precedenti film, e spoglia l'opera di ogni drammatico stilema narrativo, parlando allo spettatore con schiettezza attraverso immagini stravolgenti e dai colori delicati - pennellate d'azzurro, di grigio e di giallo - sullo sfondo di una Barcellona irriconoscibile e straziata, instabile come Uxbal. Ma è la sequenza finale ad essere, indubbiamente, magistrale: lo spettatore, in pochi istanti, è traghettato dalla sofferenza alla pacificazione. Uxbal, finalmente sereno, guarda fuori campo, seguendo la via del padre. E ogni colore si risolve nel bianco, che placa e culla dolcemente.

Veronica Mondelli (vincitrice del del concorso di critica cinematografica Genere:Femminile - quando le donne criticano il cinema 2011)