TRAMA
Dopo la morte della madre, la Regina cattiva imprigiona Biancaneve e inaugura un regime dispotico…
RECENSIONI
A Rupert Sanders non interessa rileggere la fiaba. Il regista inglese, che viene dai commercials, prende il testo scritto dai fratelli Grimm nel 1812 e si limita a impaginarlo. Non si cada nell'inganno del presunto aggiornamento al contemporaneo: l'ennesima versione si svolge all'insegna dell'estetica meticcia, infatti, spesso gli spunti sono ripresi da altri immaginari (non solo Biancaneve) ma restano sempre calchi, copie-carbone di luoghi, figure e mondi precedenti. Non c'è un briciolo di riflessione nel blockbuster Biancaneve e il cacciatore: la messa in immagini si dipana con equa ripartizione tra scenario dark a venatura horror (la regina che 'succhia' la vita dei giovani), ambizione fantasy tolkeniana/jacksoniana (il troll, gli elfi, il cervo bianco) e costruzione delle sequenze action. Nell'ultimo caso il film colpisce subito negativamente: in tutte le riprese d'azione, a partire da Biancaneve che si libera dalla prigionia, lo svolgimento si limita al dispiegarsi di ralenti e camera traballante, oppure allo scontro in campo/controcampo, con aggiunta di decibel alti ed esplosioni sonore nei momenti (ritenuti) cardine. Molto poco per un giocattolo che promette almeno di farti 'divertire'.
Regista e sceneggiatori cambiano la storia (esempio: la regina muore di freddo, non di parto) e la rendono patinata, cercando ostinatamente il quadro visivo (l'incontro tra Biancaneve e il cervo), riscrivendola con dialoghi lapidari e inverosimili anche per il contesto. Cacciatori, nani, fate e giganti: il fuoco di fila delle trovate funziona solo per accumulazione, è una 'follia senza metodo' che porta alla proliferazione di troppi elementi. Nella sua parte - teoricamente - migliore la messinscena tenta di scalfire l'archetipo, incrinare il topos attraverso scarti visivi significativi: vedi l'antropomorfismo dello specchio magico, oggetto che è 'interpretato' dall'attore Christopher Obi Ogugua. Ma l'obiettivo immediato è sempre la riproduzione: non deformare la fiaba, non rimasticare la materia narrativa che la compone, ma semplicemente rifare, attenti a proporre spunti riconoscibili, leggibili e omogeneizzati per il pubblico. Risibile anche azzardare qualche metafora sul regno oppresso o la guerra di liberazione condotta dalla protagonista. In confronto, la controversa Biancaneve di Tarsem è un'acuta contaminazione di stili. Tutto al servizio degli attori: Charlize Theron strizza l'occhio al dark, Chris Hemsworth ha espressività lapidea, Kristen Stewart in versione Giovanna D'Arco (quella di Besson, ovviamente) è molto bella ma questo, in sede critica, non significa nulla. Potrebbe essere un film di Burton, lo svogliato burtonismo in loop automatico degli ultimi anni, ma Sanders non ha neanche un'estetica da replicare, può solo ritagliare e comporre un collage con quelle degli altri.

Il secondo ‘biancaneve’ cinematografico del 2012, dopo quello insulso di Tarsem, staziona più dalle parti di Braveheart che della fiaba che rivisita in chiave realistica, dark e alla Tolkien. L’impianto è da kolossal ma è merito del regista esordiente (pubblicitario con evidenti capacità figurative) la scelta di riprese in campo aperto, aeree, “dal vero” al posto dell’artificiosità scenografica digitale da Alice in Wonderland (il produttore Joe Roth è lo stesso). Resta massiccio, ma è ben utilizzato-integrato, l’uso del CGI per dare vita agli incantesimi della regina cattiva, alla casa delle fate e per render nani attori che nani non sono. Fugaci i sapori da storia sentimentale, perché l’intento è trasformare la cedevole eroina fiabesca in una Giovanna D’Arco che indossi l’armatura, inciti il popolo e riprenda ciò che è suo. La parte ambientata nel bosco delle fate ruba (cita, si dice) a Miyazaki, soprattutto La Principessa Mononoke e funziona con le sue adorabili fatine e il maestoso cervo bianco. Notevole, ammaliante anche la Ravenna (da raven, corvo) di una bellissima-inquietante Charlize Theron, attrice che pare scegliere solo ruoli in cui possa urlare il proprio odio contro gli uomini che le hanno spezzato il cuore: Sanders ritaglia per lei le scene più cupe e saporite, restituendo una figura tragica di cui anche Biancaneve, infine, ha pietà. La sceneggiatura dosa un pericolo spettacolare dietro l’altro, qualche invenzione (rivisitazione) è valida ma, infine, tutto si riduce a un lungo film di inseguimento che non sa abbandonare figure e situazioni convenzionali (il cacciatore e il suo rapporto con la fuggiasca all’inizio) ed ovviare a passaggi inverosimili (il cacciatore che fugge dal villaggio delle sfregiate, convinto che muoia chi ama; i due pretendenti che baciano l’addormentata senza motivo alcuno).
