TRAMA
Alberto è direttore d’un ufficio postale della provincia brianzola; desiderando compiacere le mire di scalata cittadina della moglie, tagliente compagna quanto madre apprensiva e soffocante, si finge invalido per ottenere il trasferimento a Milano. Scoperto, viene punito con un trasferimento. Al sud. Scoprirà che non tutti i terroni vengono per nuocere.
RECENSIONI
La strada percorsa da Miniero è chiara e in discesa: contrastare lo stereotipo con lo stereotipo. Al Sud deturpato violento e primitivo, visualizzato - col ridicolo dogmatismo irriso dal film - dalla trista mitologia padana, viene contrapposto un Sud non meno fasullo nella sua felice, solare armonia paesana. Certo, il regista si tiene alla larga da Napoli, metropoli assurda quanto Milano è deprimente nella sua albagia, e da centri urbani infettati dalla violenza o da una cronica inefficienza. Individua un piccolo paese, un gioiello aggrappato ai rilievi costieri sulla cui bellezza non è lecito dissentire; né abbiamo motivo di dubitare del protagonista del film, lombardo d'animo prevenuto e ottuso e poi, dopo la terapia sudista, felicemente deleghistizzato e fraterno amico dell'homo mediterraneus.
La favola, non priva di momenti azzeccati, è giocata sulla rivalsa della solidarietà cooperatrice contro gli schemi nefasti d’un pregiudizio discriminante. Parabola nobile, ma la stridente inettitudine a illuminare la materia drammatica (al nord come al sud) da cui prende forma non consente di apprezzarla senza remore. Nessuna pretesa di indagine o di denunzia, ribattono gli entusiasti. Certo, ma cosa rimane? Una narrazione elementare e altamente prevedibile; una dose di folklore musicale fastidiosa per eccesso di simpatia ruffiana, al pari delle belle maschere dei protagonisti; l’amore che si fa strada tra gli equivoci e i troppi silenzi, per trionfare nell’happy end tra i fuochi d’artificio (dopotutto, siamo in Campania). Scelte di stile altrettanto lineari e astute: allettanti inquadrature di sole, cielo, mare; panoramiche illustrative o pedagogiche; espressività grossolana; gag anche divertenti ma talora grevi; e non è il caso di parlare di progressione drammatica, in questo fedele remake d’un film francese di tre anni fa.
Il risultato è a suo modo esemplare: il film piace al meridionale orgoglioso del clima e dei luoghi e della spontaneità latina, e piace del pari al settentrionale non trinariciuto, disposto ad accettare di buon grado l’invito a moderare il proprio efficientismo a forte rischio di infelicità purché il termine di confronto resti incarnato in simpatici, innocui interlocutori che parlano strano ma sanno dare una mano quando serve, e riescono perfino a lavorare. Le buone intenzioni lastricano le vie dell’inferno. Solo in un punto il film si solleva dalla non aurea mediocritas: uno scherzo, che forse è una confessione mascherata da scherzo, rivela agli astanti di essere parte di una recita sociale nella quale ruoli e battute non sono affatto chiari, nella successione e nel reciproco significato. Bisio e Finocchiaro rimarchevoli, nella povertà dei loro personaggi. Efficaci e gradevoli gli altri.