Drammatico, Sala

BELLA E PERDUTA

TRAMA

Tommaso Cestrone “angelo di Carditello”, unico custode dell’omonima Reggia abbandonata, muore. Per sua volontà, il bufalo Sarchiapone dev’essere portato in salvo. Dalla fornace vesuviana, un Pulcinella giunge ad esaudire il desiderio, con un permesso speciale che concede al bufalo il dono della parola, perché ci racconti la sua storia.

RECENSIONI

«I sogni e le fiabe, anche se irreali, devono raccontare la verità».
Saggezza di un bufalo che ha percorso mezza Italia quasi invano, che parla per intercessione della fiaba in una realtà messa a tacere, e per voce di un Elio Germano intimistico, fragile e intenso, con lieve strascicatura campana.
Il film di verità ne contiene molte.
Sospeso in una cornice di sogno pastorale e teatralizzato, è al contempo limpidamente descrittivo; alle soggettive immaginifiche del bufalo, di cui sentiamo il fiato sbuffante in un'ardita e affascinante costruzione sonora, alterna lo schietto realismo dei filmati da documentario.
La prima verità è, infatti, perfino cronachistica, ed è la vicenda Di Tommaso Cestrone - angelo - custode della Reggia borbonica di Carditello, splendore abbandonato e condannato al deperimento da una terra difficile. Sembra che soltato a lui, anche a proprio rischio e con enorme e solitario sforzo, ne importasse ancora qualcosa. Ma un giorno Tommaso muore d'infarto e il film, il cui progetto iniziale prevedeva un viaggio attraverso l'Italia sulla scia letteraria del testo di Guido Piovene degli anni '50, resta nel luogo d'origine, si converte in fiaba attuale nel richiamo di tradizioni antiche come i miti bucolici, come la fabula atellana fucina di maschere da commedia, nonché in favola, poiché è un bufalo la voce narrante e cosciente che procede parallela alle immagini e ne è il cuore etico.
Il viaggio diventa percorso verso una fine alternativa, tentativo di salvezza dalle storie già scritte, riflessione morale che investe il legame con la natura e con il tempo, destinati la prima alla contemplazione, il secondo al dispiegamento, condannati tuttavia entrambi al consumo.
Storia degli umili che condividono il sonno con le bestie - come il Pulcinella servitore gobbo di un complesso di maschere da ufficio che dispensa al passaggio la sua saggezza da dissennato - il film contiene un sottotesto labile ma prezioso che lega l'anima all'animale: difatti, quella chiamata in causa è una maschera liminare, il Pulcinella "psicopompo" che agisce al confine fra Terra e Oltretomba e fra uomo e animale, assicurando al secondo ciò che è prerogativa del primo, la parola, che, per convenzione e per magia, funziona solo attraverso il filtro della maschera e, oltre quella, serra ogni possibile osmosi fra regni - umano, animale, terreno, ultraterreno -, ed è una condanna al silenzio, quindi alla realtà.
E' chiaro come, per il fruitore ultimo di questa testimonianza e di questo racconto, ossia lo spettatore, la maschera sia il film stesso, concessione di una parola altrimenti non udibile, connessione fra il tempo presente e la sua prosaicità e il tempo del sogno, col suo lirismo decadente. Bello; perduto. Come i miti antichi, come una reggia scomparsa, come l'Italia, cui finalmente all'attributo della bellezza, si affianca quello non meno poetico, non meno opportuno, della perdita.

CineCromie - La vita, la morte e il sogno

La struttura cromatica di Bella e Perduta poggia su uno schematismo essenziale e efficace assicurato principalmente da due reparti della lavorazione filmica, i costumi e la fotografia, che non possono se non accompagnarsi, eppure si tende a privilegiare l'analisi solo della seconda.
In un panorama di abiti poveri e semplici, spicca il più semplice e povero di tutti e il più codificato, quello della maschera-Pulcinella che basa tutto il suo significato su un dualismo netto e primordiale: l'associazione del bianco e del nero.
Il contadino di Acerra, da cui probabilmente il personaggio origina, assume col tempo il peso semi-divino, ma non per questo meno servitore, di mediatore fra vivi e morti. La maschera dai tratti appuntiti a becco di uccello è animalesca e tombale, nera, come le grosse scarpe; la camicia sovrabbondante da spettro o da sudario è, come i pantaloni, candida. Un senso di vagabonda umiltà si affianca al mistero, forse perfino alla missione; l'ironia e la doppiezza che, come quasi ad ogni maschera, appartiene anche a Pulcinella, si accompagnano a un contenuto spirituale.
Una nota di malinconia e di sottomissione al fato viaggia di pari passo col desiderio di libertà e di riscatto dalla vita stessa, e a dispetto della morte.
Compagno di viaggio e di sonno («c'agg spartut u suonn», ci ho condiviso il sonno) della maschera dagli abiti bianchi, un bufalo nero, che nel suo povero destino già scritto ricorda il cavallo bianco Nestore alla sua "ultima corsa" per le strade di Roma col vetturino Alberto Sordi.
Tutto intorno, il verde smorzato di una natura placida e indifferente che risalta sensibilmente nella grana della pellicola, è immerso in una fotografia cianotica, che sfuma i contorni della realtà in un'atmosfera sognata, irreale, fatalistica.
Allo schema fiabesco che, lo ricordiamo, qui come in Crimson Peak (vedi commento ai colori nel film) si basa su tre poli cromatici, il bianco-il nero- il rosso, manca quest'ultimo. Dosato al minimo, fa la sua apparizione nel costume a losanghe dell'incipit pantomimico e nell'epilogo pastorale. All'interno di questa cornice, esiste solo come (pre)sentimento, come destinazione già nota verso la morte violenta, verso la lama che prima o poi dovrà calare. Prende il posto del sangue, dunque del rosso, il suo opposto azzurro-ciano dell'aria, delle pareti d'ufficio, del presagio.
Vita sospesa nel sogno; morte già inscritta in quello stesso sogno.