TRAMA
Le vite di una famiglia operaia e del loro giovane figlio, cresciuto durante il tumulto degli anni ’60 nella capitale dell’Irlanda del Nord.
RECENSIONI
Belfast o è un film difficile, o è un film facile che prova a essere difficile. Difficile a dirsi, appunto.
Forse in ogni caso propenderemmo per la seconda ipotesi, a partire da una constatazione di fondo: il troppo stroppia. Già, perché se sono abbastanza evidenti i buoni propositi di Branagh, e anzi a tratti così evidenti da capitolare grossolanamente nella didascalia (le dediche finali – «For the ones who stayed / For the ones who left / And for all the ones who where lost» – di sapore pleonastico, ad esempio), sembra comunque troppo smaccata la pretesa di fare “il film di maniera”: e va bene il bianco e nero, che poi però ogni tanto compaiono i colori, in un rapporto peraltro invertito (la verità in scala di grigi, la finzione nella finzione cromata); e vanno bene il vedutismo e i pillow shot su una cittadina come la capitale nordirlandese, che quindi non ci mostra mirabili paesaggi ma le sue fumose ciminiere della fine degli anni ‘60; e ancora vanno bene le inquadrature angolate dal basso e un po’ sbilenche, la profondità di campo esageratamente ostentata, i surcadrage insistiti, l’allestimento dello spazio profilmico a mo’ di fotografia instagrammabile, e così via. Va tutto bene, ma forse è proprio questa specie di pulsione additiva a rendere la Belfast di Belfast, ridotta a un singolo quartiere e anzi sostanzialmente a una singola strada, posticcia al limite del monodimensionale. Quel po’ in più che anche nell’ottica di un film-omaggio, autobiografico, sul ritorno alle radici che lo sono in quanto e memoriali e geografiche, filtrate attraverso lo sguardo di un bambino, stride leggermente. Detto ciò, se si legge Belfast in questi termini, se si guarda cioè soltanto all’intentio operis, allora già forse non lo si è capito del tutto; al contrario sembra complicato slegare il film dal suo autore, pertanto il processo alle intenzioni deve confrontarsi con quella che, pur non apparendo tale, è probabilmente una forma di intimismo un po’ kitsch, in piena coerenza con il pittoresco ecosistema registico branaghiamo. Il bilancio però stenta a variare.
Branagh è peraltro qui anche sceneggiatore, e sarebbe ingeneroso non segnalare come i dialoghi presentino alcuni guizzi inaspettati, capaci forse più del resto di farci penetrare nella forma di vita belfastiana, sineddoche di una Irlanda del Nord vessata da una escalation di violenze ma ancora capace di rivendicare una propria maliosa identità, fatta di accenti peculiari e di un invidiabile, cinico umorismo. Se delle cose sono ben oliate in Belfast, queste sono i dialoghi e il modo in cui da potenza divengono atto tramite una recitazione in generale efficace. Basterà?
A conti fatti sembra di no. Fa forse più ridere (o ridacchiare) che commuovere questa versione dell’orrendo agosto 1969 belfastiano, preludio a un sanguinoso conflitto che purtroppo si protrarrà per decenni, e che qui è mediato dalla prospettiva di Buddy, simpatico fanciullino affascinato dal cinema (siamo di nuovo nella didascalia à la Branagh legge Branagh), che non può che ricordare altri bambini adoperati nel cinema come filtri per raccontare e spesso distorcere i drammi della Storia: senza ricostruire l’intera filologia di quello che è a tutti gli effetti un filone basti pensare, che ne so, al recente Jojo Rabbit di Waititi, caso in effetti di tutt’altro spessore. E però Branagh quell’orrore lo tiene sullo sfondo, letteralmente (il cambiamento nelle geometrie urbane del quartiere, con filo spinato e rottami), ma anche in termini di focus, raccontando più che la storia delle rivolte la storia di alcune vite fra tante, che si barcamenano come possono, e intanto fuori c’è la guerra civile. Ne risulta un’opera che aulisce di acerbità, strizzando l’occhio a una specie di neorealismo in salsa british ma faticando a non soffocare sotto i suoi stessi, troppo esibiti, meccanismi.
Rimane dunque il sentore di un’occasione mancata. Si sarebbe potuto raccontare, pur mantenendo il piccolo Buddy e compagnia cantante, in maniera più ficcante e icastica un pezzo di Storia che non tutti conoscono, e ancora meno conoscono bene. Sarà per la prossima volta.