TRAMA
Cina, un padre incide l’effigie di Mao sulla schiena del figlio piccolo…
RECENSIONI
Presentato come “horror totalitario”, in realtà Bei Mian (La schiena) di Liu Bingjian suona piuttosto come un percorso di liberazione dal regime: se ieri il padre ha impresso Mao sul corpo con la violenza, oggi il protagonista (interpretato da Hu Bing) intraprende un viaggio per cancellarlo. Un viaggio allucinato e dallo spiccato valore simbolico: Liu non specifica la sostanza contenuta nella storia, ma preferisce suggerirla attraverso una rete di allusioni, come il cromatismo rosso che domina dall’inizio (il colore del partito e, naturalmente, del sangue). Girato in digitale, il film risulta allora come una passeggiata dentro un’installazione, un museo costruito per accumulazione, che trabocca di cimeli maoisti. Opera come Storia del paese, e del filo che lega passato al presente, senza pudore nella volontà evidente di ridurre la dittatura a metafora: i segni del regime sono impressi sulla pelle-nazione, hanno spento le emozioni ripercuotendo sulla vita intima, rendendo i cittadini anaffettivi, incapaci di generare un contatto (il protagonista respinge la ragazza, non vuole essere toccato). Bei Mian, sulla carta interessante lavoro simbolico, si perde però in una serie di stranezze calcolate – come il tuffo nella vasca dei pesci rossi -, nella ripetizione e iterazione delle stesse situazioni: in teoria a rappresentare la liturgia meccanica dei regimi, in pratica evidenziare una debolezza di idee nonostante la durata modesta. Cinema antiregime, in teoria sinceramente doloroso e liberatorio, ma non rigoroso come le dittature cilene di Larraìn; al contrario basato sul rito insistito che, figurativamente, non acquista mai significato. Nella sequenza più eloquente, si ottiene davvero una ricostruzione finzionale ma verosimile della Cina che fu, quando il padre apprende alla radio la morte di Mao (1976) e incredulo esclama: “Impossibile, pensavo che fosse immortale!”.
