TRAMA
Sotto il sole, la celestiale bellezza delle distese erbose sarà presto consumata dalla polvere delle miniere. Al chiaro di luna le miniere di ferro sono illuminate a giorno. I lavoratori che azionano le trivelle devono rimanere svegli. Nel frattempo, i minatori sono occupati a riempire di carbone i camion. Un’infinita coda di autocarri trasporterà i minerali di ferro e di carbone alla fonderia, dove è intrappolata un’altra folla di anime che brucia all’inferno. Dopo decenni passati a respirare la polvere di carbone, la morte è dietro l’angolo, e loro vivono un’esistenza da purgatorio. Ma alla fine non ci sarà nessun paradiso.
RECENSIONI
Il behemot è una leggendaria creatura biblica menzionata nel Libro di Giobbe. Pluralis excellentiae della parola ebraica che sta per ‘animale’, il behemot è la bestia delle bestie, mostro in grado di nutrirsi del fieno di mille montagne, leviatano terrestre tanto possente da risultare imbattibile, tanto spaventoso da essere metaforicamente associato al diavolo stesso. Behemot è anche il titolo, azzeccato e evocativo, dell’ultimo lavoro del documentarista Zhao Liang, voce fra le più importanti e apprezzate del cinema cinese contemporaneo. Potente e spaventoso, il film si impone allo spettatore come una visione di pulsante urgenza – sociale, ambientale, etica – e di maestosa confezione estetica.
Siamo in Mongolia Interna, provincia settentrionale della Cina, terra ancestrale di steppe desertiche e uomini a cavallo. Qui, fumanti, miniere per l’estrazione del ferro squarciano le montagne, le cave mefitiche assistono al continuo andare e venire di camion che trasportano i materiali grezzi alle fonderie, officine infernali che modellano i componenti necessari alla costruzione di grandi complessi residenziali. La prima parte del film, che procede per quadri d’osservazione con lentezza a tratti estenuante, si concentra sull’aspetto materiale del lavoro e sulla violenza perpetrata ai danni del territorio: immagini straordinarie delle miniere come ferite urlanti che squarciano il territorio; ascensori bui che in una discesa infinita portano fino al centro della terra, uomini-formica che brulicano fra ruggine e rotaie, spaventose bocche d’inferno le fonderie che modellano cavi incandescenti. La seconda parte, più emotiva, si concentra prima sugli effetti che questo lavoro ha sulla vita e la salute degli operai – polmoni infestati di nero, tumori, malattie, prospettive di morte assicurata – e si conclude quindi mostrandoci la destinazione d’uso di tanta attività, stupro ambientale e distruzione umana: la costruzione di una gigantesca città fantasma nel mezzo del nulla mongolo, commissionata dal governo, con i suoi grattacieli scintillanti, le strade pulite, ma tragicamente vuota, inabitata, senza vita. Il behemot che dalla distruzione genera il nulla, un’immagine beffarda e straziante che commenta in maniera lancinante gli sfasamenti e gli squilibri del progresso cinese.
A ragione, la grande maggioranza dei commentatori ha elogiato Behemot come uno dei titoli di punta del concorso veneziano 2015. Eppure, oltre i giudizi emotivi generati dall’impatto di una visione di tale vigore e l’indignazione dinnanzi a temi di cruciale attualità, merita una riflessione più attenta l’ardita formula cinematografica adottata dal regista. In altre parole, se a livello tematico non esistono argomentazioni valide in grado di mettere in dubbio l’importanza dell’opera, è circa il suo impianto estetico che qualche domanda o riserva andrebbe posta: quanto è funzionale la particolare struttura estetica del film all’espressione dei contenuti tematici? Come li veicola e con quale effetto?
Behemot è un ibrido fra documentario d’osservazione, documentario poetico (per usare la terminologia suggerita dallo studioso Bill Nichols) e video arte, all’interno di una struttura narrativa che echeggia volutamente la Divina commedia dantesca. La componente d’osservazione va per la maggiore, in lunghe sequenze con l’autore idealmente muto dietro le lente della sua camera. Zhao Liang cerca di innestare ulteriore potenza a queste immagini estetizzandole: l’inquadratura, la composizione, le componenti cromatiche sono tutte attentamente studiate e messe in scena. Nessun soggetto parla, l’unico commento vocale è affidato a versi poetici ispirati alla Commedia che punteggiano il film sottolineando passaggi e immagini. Gli innesti che contaminano l’opera in direzione della video arte vedono un personaggio-testimone silente che cammina fra i prati e le salite rocciose che costeggiano la miniera, completamente nudo, con uno specchio appeso alla schiena per duplicare lo spazio di visione, per duplicare la devastazione. Inerme, il testimone si distende in posizione fetale e assiste alla nascita del behemot, mentre linee oblique dividono lo schermo in segmenti di forma piramidale (struttura visiva che rimanda, ancora una volta, alla struttura dell’inferno dantesco).
L’uso di elementi avantgarde in connessione con dispositivi poetici e d’osservazione più classici è una ipotesi estetica interessante e coraggiosa, specialmente se intesa come esplorazione di linguaggi documentaristici non allineati – e questo ancora più nell’ambito del cinema documentario cinese, in cui il format standard dell’osservazione va per la maggiore da ormai oltre vent’anni. Detto ciò, la personale riserva che esprimo – non in merito a questo approccio in generale ma a Behemot in particolare – è che lo sforzo estetico/estetizzante non aggiunge di fatto molto alla potenza dell’immagine in sé, anzi corre continuamente il rischio di raffreddarne l’impatto emotivo. Pur non scadendo mai nel compiaciuto, Behemot sembra spingere troppo in là la propria ambizione rappresentativa, costeggiando pericolosamente quello che Kristin Thompson definirebbe “cinematic excess”, eccesso cinematografico, ovvero l’accumulo di elementi estetici che non aggiungono significato all’immagine e alla narrazione. Per esempio, il passaggio critico cruciale fra realtà e surrealtà, tanto cercato in vista delle sequenze finali nella città fantasma, è un dato che potrebbe essere esplicato già dalla realtà in sé, tanto essa è sconvolgente e umanamente sur-reale.
La tentazione è quella di comparare Zhao Liang con l’altro grande documentarista cinese contemporaneo, Wang Bing – il cui epocale Tiexi qu – West of the Tracks sembra essere evocato qua e là nelle visioni della fonderia, dei cunicoli oscuri, nei visi dei lavoratori – non certo per decretare la superiorità di un autore sull’altro, ma per sottolineare un diverso approccio al documentario e gli esiti differenti. Altri critici hanno immancabilmente suggerito un confronto fra i due registi, argomentando una contrapposizione fra l’enfasi estetica di Zhao Liang e la ‘poetica del degrado’ di Wang Bing. Personalmente non ritengo questa considerazione il punto nodale nel confronto, quanto piuttosto notare come l’osservazione ‘partecipe’ di Wang Bing, scevra di eccessivi apparati estetici e totalmente aperta all’imprevisto diegetico, riesca ad arrivare proprio laddove Behemot si ferma: all’emozione, all’umanità oltre l’indignazione di un atto d’accusa feroce.
