
TRAMA
Dopo un’inaspettata tragedia familiare, tre generazioni della famiglia Deetz tornano nella piccola città di Winter River, nel Vermont. Lydia Deetz, sensibile alle visioni paranormali, inizia a vedere il demone Beetlejuice che la perseguitava da adolescente. Il suo piano per sposare finalmente Lydia assume una rilevanza importante quando la sua defunta moglie torna in vita e inizia a cercarlo nell’aldilà. Nel frattempo, la figlia adolescente di Lydia intraprende una storia d’amore con un coetaneo del posto.
RECENSIONI
(Bee Gees - Tragedy)
Forse per comprendere quest'ultima fase della filmografia di Tim Burton limpidamente e senza i pregiudizi dettati da occhi che, invecchiando, si fanno pigri e sempre più cinici, si dovrebbe provare a riposizionare un film come Big Eyes, per certi versi giustamente considerato una mosca bianca nel percorso dell'autore e proprio per questo degno di attenzione. Perché se è vero che Alice in Wonderland è senza dubbio il funerale del primo Burton, un tragico ritorno in casa Disney che diventa il primo grande e inaspettato tonfo della sua carriera e se è vero che i successivi Dark Shadows e Frankenweenie sono due (bellissimi) progetti transitori con i quali Burton provava a rialzarsi lavorando su soggetti estremamente personali (rispettivamente, l'omonima soap opera degli anni '60 di cui è grande fan e il suo celebre corto del 1984), con Big Eyes l'autore sceglie di voltare finalmente pagina, mettendo al centro del discorso, per la prima volta in modo così spudorato, una questione a lui molto cara come quella dello sfruttamento commerciale dell'immaginario altrui. Naturalmente, senza nemmeno troppi sforzi di interpretazione, la vicenda della pittrice Margaret Keane - dichiarata fonte di ispirazione per Burton e per anni nascosta dietro l'ombra di un marito affarista che si spacciava per il vero autore delle sue opere - è facilmente riconducibile al modo in cui i mostri e lo stile burtoniano si erano ormai trasformati in un brand al servizio dello spettatore o della multinazionale di turno, opere seriali le cui repliche erano vendute nei supermercati, mondi incapaci di sorprendere dai quali ci si aspettava non più l'ignoto, ma l'elemento riconoscibile, il tratto distintivo a tutti i costi. Big Eyes è allora il momento in cui Burton si ripiega esplicitamente su se stesso, privilegiando la testa al cuore, la riflessione metalinguistica alla creazione di universi ed è un film che sta a questa seconda fase del percorso artistico dell'autore esattamente come Ed Wood stava alla prima (sono i suoi due unici film biografici, sceneggiati entrambi da Scott Alexander e Larry Karaszewski); come se in queste due figure della Storia riecheggiassero anime capaci di interpretare, meglio di qualsiasi mostro o creazione originale, un sentire umanissimo e profondamente personale, cristallizzando e insieme decifrando un momento nel tempo. Ora, da Big Eyes in poi l'elemento auto-riflessivo è stato spesso predominante nelle opere di Tim Burton, egli stesso cercando forse un modo di far coniugare questa urgenza con lo slancio più vitale e tragicamente affettuoso del suo cinema più conosciuto e amato. In altre parole, un modo di riequilibrare testa e cuore, pensiero e sentimento, teoria e passione (come accadeva in Big Fish, anche per questo, ancora oggi, il suo capolavoro), il cui tentativo è molto evidente sia in Miss Peregrine - La casa dei ragazzi speciali che in Dumbo, due film curiosi eppure irrisolti, forse soffocati dal bisogno di muoversi all'interno di immaginari precostituiti. Serviva dunque ripiegarsi all'interno di una creazione propria, ricostruire (letteralmente!) il nuovo corpo - mostruoso - oggetto dell'amore, osando un maturo ritorno alle origini capace di disegnare quella vertiginosa circolarità che è propria solo della vita e della morte.
È infatti nella sua stessa natura di sequel - attenzione: si tratta del primo sequel che Tim Burton realizza a partire da un universo partorito del tutto dalla sua mente - che vanno ricercati il senso e la forza di un progetto come Beetlejuice Beetlejuice, a lungo desiderato e immaginato sia da David Geffen che dallo stesso autore fin dal successo del capostipite, nel 1988. Perché Burton sa bene di non poter replicare, oggi, lo spirito anarchico del modello originale e sa altrettanto bene che l'esercizio della nostalgia sarebbe sterile e contraddittorio, funesto presagio di una morte desolante e quindi lontanissima dall'essere quello spazio pieno di vita che il suo cinema ha sempre raccontato. Ma quale rimpatriata tra amici, in Beetlejuice Beetlejuice non c'è un briciolo di nostalgia; se al passato, inevitabilmente, si guarda è con occhi adulti e pienamente consapevoli, sentimentali certo, ma mai ritirati in un tempo idealizzato che non tornerà mai più. Eccola allora la componente meta-testuale, eccolo lo sguardo egoriferito (eppure mai narcisista) del Burton odierno, che qui trasforma completamente il significato dell'aldilà immaginato nel 1988 per adattarlo alle esigenze di oggi: non più uno spazio franco in cui poter dare libero sfogo alla propria creatività e ribaltare regole e convenzioni espressive e narrative, bensì un mondo di continuo confronto con le paure e con gli spettri del passato (e non è un caso se è l’unico luogo dove la famiglia burtoniana - disfunzionale per definizione e qui composta da vivi, morti e morenti - può davvero riunirsi al di là di ogni rancore e incomprensione). I fantasmi di ieri infestano il nostro presente e con essi siamo costretti a fare i conti: una moglie che si ricompone e ritorna accidentalmente in vita, le visioni di un bio-esorcista incontrato oltre tre decenni prima che continuano a tormentare il proprio quotidiano, un padre scomparso anzitempo che si vorrebbe rivedere, un terribile omicidio familiare che a distanza di ventitré anni è ancora capace di infestare il mondo dei vivi, il desiderio irrinunciabile di tornare alla vita; ma anche l'eterno ritorno delle immagini del passato (sequel), la rievocazione persistente di un mondo fantastico che si colloca all'origine di un immaginario unico e immediatamente riconoscibile che ha segnato e definito quasi quarant'anni di storia del cinema.
Insomma, qui - finalmente - il Burton teorico e meditabondo coesiste in modo brillante con quello più eccentrico e viscerale, segnando quello che ad oggi pare il punto d'arrivo ideale del percorso decennale di cui sopra: un tassello bellissimo e importante perché in grado di far coesistere passato e presente in una forma nuova, dialettica e, soprattutto, pienamente contemporanea. Alla furiosa libertà del capostipite si sostituisce dunque un'architettura complessa di matrice seriale (inevitabile l'influenza di Mercoledì, scritta - e ideata - anch'essa da Alfred Gough e Miles Millar), che però Burton è capace di gestire in modo perfino sorprendente, riuscendo a trovare, tra le tante piste del racconto, un'essenzialità che molte delle grandi e (sempre più) lunghe narrazioni contemporanee avevano scordato. È un film calderone, Beetlejuice Beetlejuice, straripante nelle invenzioni eppure educato nella forma, un gioco sincero e affettuoso fino alle lacrime eppure misuratissimo nella sua vertigine teorica. Un film in cui coesistono sfacciati e dichiarati omaggi ai maestri del passato (Mario Bava) e velleità satiriche sulla società del presente (gli influencer risucchiati negli schermi dei propri smartphone, perché ogni presunta documentazione della realtà, oggi, è soltanto una goffa messa in scena di se stessi: semplicissimo, banale, geniale), l'animazione in stop motion tradizionale e il musical con tanto di passo di danza a misura di TikTok, i Bee Gees e i Sigur Rós, Donna Summer e i Mazzy Star, in un contrappunto musicale che coerentemente si fa questione generazionale (nonché indizio sulla vera identità del personaggio di Jeremy, celato attraverso il fascino del revival: «non mi fido di quello che non posso toccare»). E ancora, è un film che naturalmente segna un ideale passaggio di testimone, quello tra una Winona Ryder che qui abbraccia spesso il ruolo di alter ego dell'autore (vero o falso che sia, il commovente commiato finale lascia pochi dubbi a riguardo: «Thank you all the ghosties out here, this is my last show») e Jenna Ortega, quest'ultima definitivamente assunta a volto burtoniano per eccellenza della generazione Z.
Ad unire il tutto, naturalmente, l'amore. Perché in fin dei conti, quelle di Tim Burton sono sempre love stories che nascono e crescono nella morte, matrimoni che si succedono a funerali, affetti bellissimi e mostruosi, amori tragici e impossibili che germogliano perfino nell'orrore. Incubi certo, ma che vale sempre la pena vivere, paure tangibili (anche nella loro dimensione tattile e squisitamente artigianale) che ci attanaglieranno per sempre e che per sempre turberanno le nostre notti, ma che nonostante tutto continueremo ad alimentare. Wolf Jackson, lo straordinario detective interpretato da Willem Dafoe, direbbe: «You gotta keep it real».

Contigui, ma così diversi, eppure, insomma, davvero adiacenti, specie in certe opere giovanili; in quel momento della vita, cioè, in cui, anche nei geni, si continua a rimescolare il disagio anti-atavico di chi vede l’ipocrisia, certe storture, certe pose sociali che tali restano, non divenendo mai essenza, meglio e prima degli altri. Sono Tim Burton e David Lynch, sì, diversi, diversissimi, uno impegnato a trasformare l’incubo di tutte le Burbank d’America in fiabe cupe, l’altro propenso a osservarlo con la perizia scientifica dell’entomologo, costi quel che costi. Le creature di Burton, anche quelle più temibili, le più, anche involontariamente, terrorizzanti, sono spesso ammantate dal velo della tenerezza: Jack Skellington, Edward che non può – non potrebbe – abbracciare chi ama, Oswald Cobblepot, innocente sacrificato alle fogne per un destino che pare biblico, persino Beetlejuice, morto, ma più vitale, più creativo dei vivi; è un prigioniero dell’immaginario altrui – il plastico perfetto dei Maitland, più vero del vero, o più vero del falso – che vuole riagguantare la propria libertà demiurgica. Del resto, il mondo a cui appartiene è cromaticamente saturo, da videoarte – di contro c’è una cittadina così mite e pastello, un po’ passivo-aggressiva – e le raffigurazioni dei defunti sono potenti, energiche, al contrario delle ridicole installazioni di Delia!
Si chiama come l’Alpha Orionis, Betelgeuse, la supergigante rossa che, a detta di chi se ne intende, è sul punto, almeno in termini astronomici, di esplodere in una supernova, ma ricompone il proprio nome senza darsi troppa importanza: succo di scarafaggio.
L’incubo in Tim Burton diventa così una forma di gioco, magari violento, magari macabro, come quello del Joker di Nicholson, nel primo Batman, o dello stesso “spiritello porcello” e della banda scalmanata dei defunti che si trovano nel limbo-sala d’aspetto di un Aldilà che, in Beetlejuice – Spiritello porcello, non è così importante visitare (e neppure evocare). In un modo o nell’altro, i veri mostri sono sempre coloro che a primo acchito non lo sembrerebbero, quelli che possono portare in giro con orgoglio la propria faccia e non sentono il bisogno, scollati come sono dal livello minimo indispensabile di empatia, di mascherarsi per fare i conti con i propri demoni.
Il pavimento di Burton è a scacchi bianchi e neri, surrealista nella conformazione, quello di Lynch – da Eraserhead fino a Twin Peaks – consiste in losanghe bicolori infinite: l’equilibrio è solo apparente, in un caso per l’instabilità del piano, in un luogo in cui le regole sono sovvertite dal grottesco e dall’assurdo, nell’altro perché semantica e simbolo scappano sempre in luoghi che non ci sono così prossimi. L’incubo lynchiano è una condizione permanente e a-morale, nel senso che è dotato di una morale sospesa, ininfluente (è osservazione, non giudizio): a differenza di una mera dicotomia, vera di per sé, il pattern è lineare o simmetrico, ma allo stesso tempo disordinato e incostante, suggerendo che queste forze opposte – lo yin e lo yang, di primo acchito – non sono separate in modo netto, ma mescolate con imprevedibile, o anche prevedibile, tanto a Lynch non importa affatto delle quisquilie, ambiguità. Ambedue sono duali e in entrambi è rilevante, tanto l’influenza di Escher, quasi per antonomasia, nel perturbamento caleidoscopico della percezione (le scale verso l’immondo fognario di Batman – Il ritorno, per esempio), quanto quella di Magritte: il gioco di apparenze di Burton e la destabilizzazione della realtà di David Lynch possono essere interpretati quali risonanze del modo in cui il pittore belga rappresentava l’impossibile come plausibile, o, per meglio dire, instillava nel guardante il dubbio ontologico sulla natura intrinseca delle cose e sul portato ineliminabile del loro mistero. La paranoia critica di Dalì sciocca attraverso l’allucinazione decomposta, René Magritte – e, a mio avviso, sia Tim Burton che Lynch – tradiscono con ironia le immagini per ribadire la labilità di segni e significati. Sogni e incubi possono certo, specie nel regista di Missoula, essere allucinatori, ma sono al contempo un continuum rivelatore del non-sonno. Un po’ come la porta, disegnata sul muro, nella saga di Beetlejuice e che unisce questo mondo e l’altro (e che ricorda, per l’appunto, la porta su un altrove di Magritte: «The problem of the door required an opening into which one could enter»): si tratta di comprendere che l’immediatamente esperibile non fa il totale dell’equazione.
Ma perché, insomma, un lavoro maturo, compiutamente maturo, di un autore sovente associato, senza troppi indugi, a innocui scherzi gotici, bambineschi, anche, e detto senza affetto critico (non da parte mia, io lo adoro!), sembra unire puntolini che già in precedenza si potevano intravedere? La mia risposta, in estrema sintesi, è: per un orecchio, ovvero una porta che non assomiglia a una porta. Una pipa che non è una pipa? L’orecchio è una soglia involontaria e Lynch non lo sceglie a caso, quando lo fa ritrovare a Jeffrey Beaumont in Velluto blu. L’orecchio, che strutturalmente è spiraliforme, carpisce, anche senza volerlo, una miriade di informazioni, magari informazioni che non si vorrebbero far udire ad altri. Il fatto che, in quanto inciting event della trama, sia staccato dal corpo, suggerisce una rottura della connessione tra il mondo esterno, dove è inverosimile non percepire, ma la percezione è impura, viziata dal “si deve”, e quello interiore dell’es, incontaminato, ma in potenza traumatico. La normalità borghese viene messa in discussione, senza farne assiomi e senza neppure la pesantezza della militanza esplicita; lo stesso avviene nell’universo poetico di Burton, con le sue villette a schiera che “non sono mai quello che sembrano”. Solo che questo Burton non è più il Burton di Edward mani di forbice o di Frankenweenie, dove la morte veniva esorcizzata grazie all’”ingegno elettrico”. È semmai più vicino, per cronologia e per crescita artistica, a quello del vituperato Dumbo, gioiellino niente affatto scontato, in cui il nostro si divertiva a far bruciare una specie di Disneyland… La stoccata ironica alla celebre casa di produzione arriva anche in Beetlejuice Beetlejuice, ma non è ciò che più colpisce. Colpisce il dettaglio sull’orecchio di Delores che, sulle note di Tragedy, dei Bee Gees, ricompone il proprio corpo dilaniato in una delle scene visivamente più riuscite dell’opera, quasi fosse una Emily, da La sposa cadavere, parecchio incattivita. È come una trama all’indietro, come se, alla fine – un esito placido, ma solo per finta – di Blue Velvet si agganciasse un’altra storia che, come quella, non può più illuderci. Alla fine di Beetlejuice, un bel voto a scuola assicurava a Lydia una svolazzata, canticchiando Jump the Line. Il regista era giovanissimo e l’idea di un luogo per anime perdute (o ritrovate davvero solo post-mortem) lo divertiva, tanto da volere, per mezzo della sua protagonista, jump in the line, rock his body in time. Sono trascorsi quasi quarant’anni e la sensazione è che l’idea della morte assuma oggi per Burton un significato diverso, non sacrale, ma neppure sacrilego (si veda il sudario scuro sulla dimora di Winter River): un tempo la morte restava nel suo limbo rincorbellito, a vedersela con impiegati-suicidi indolenti, coach improbabili e serpentoni delle sabbie, usciti da una fantascienza di serie b. Ora comprendiamo che si può andare anche da un’altra parte, attraverso un soul train che, come il genere musicale omonimo, è melodioso e malinconico. Se prima si poteva ballare e giocare in eterno, adesso non più. Se prima Beetlejuice e le sue sboccate provocazioni potevano essere cacciati via dentro il plastico o in qualunque altro posto, lontano dalla nostra quotidianità, ora la morte non può essere ricusata: il finale, sardonico, geniale, di questo film de los muertos è sprezzante sul sogno americano e (quindi) borghese, ma è soprattutto figlio dell’accettazione di un’ineluttabilità. Senza eccessivi drammi, ovvio, è pur sempre un film di Tim Burton.
D’accordo: è difficile credere che ci siano ragioni progettuali dietro l’elusione dei Maitland, a cui si accenna e basta, senza troppi patemi. Problemi legati all’uso di tecniche di ringiovanimento digitale più qualche contesa sui diritti d’immagine, forse.
E quando Lydia vede alla finestra il nuovo amico di Astrid, avrebbe dovuto capire che si trattava di un fantasma: chi, se non lei? Burton, nel tentativo di dire tutto, ha finito per mettere troppa carne al fuoco, come nel caso del metacinematografico, divertente, ma un po’ irrisolto, detective hard-boiled di Dafoe. Tuttavia il film mi è parso funzionare bene, per la sua sincera ispirazione, anche autocitazionista, ma mai sterile o compiaciuta. E perché ha saputo risolvere l’assenza imposta in modo non mellifluo; per certi versi ha saputo vincere, almeno cinematograficamente, proprio la morte. La fine cruenta (ma buffa) del padre di Lydia, necessaria a causa della condanna di Jeffrey Jones, è stata aggirata con una sequenza in stop-motion – preferita alla CGI – e con un nuovo cavaliere senza testa (romantico): non era facile, ma ci sono riusciti, regalando a un personaggio fondamentale per questa storia, anzi a due, il più dolce e catartico dei commiati.
Perché, ormai dovremmo saperlo, c’è un momento per ogni cosa: in che anno siamo?
A margine: Monica Bellucci – altro sintagma che sembra unire i due autori citati, Burton e Lynch – non è mai stata considerata, almeno in Italia, un’attrice troppo dotata, ma sbaglia chi dice che lavori solo perché è bell(issim)a: in poche, tra dotate e non, sfondano l’immagine con l’intensità con la quale riesce a farlo lei. La ragione di questa specie di sortilegio dell’immanenza non la conosco, ma forse il cinema, attraverso i corpi, in questo caso decomposti, catalizza l’esorcismo che, secondo Jean Baudrillard, è rappresentato dalla fotografia: “La fotografia è il nostro esorcismo. La società primitiva aveva le sue maschere, quella borghese i suoi specchi, noi abbiamo le nostre immagini.” A Monica, la magia in movimento, in qualunque delle viscere essa risieda, riesce bene.
