TRAMA
Nic Shelf è un bellissimo ragazzo. Lo è sempre stato, fin da bambino. Il bellissimo ragazzo del suo papà. Buono, bravo, intelligente. Cresciuto con amore dal padre giornalista e dalla sua seconda moglie, Karen, artista, che ha dato a Nic due bellissimi fratelli. Da adolescente, comincia a sperimentare qualche droga, la sua preferita è la metanfetamina, ma in mancanza va bene anche l’eroina, anche in vena. Nic vorrebbe venirci fuori, ma non ci riesce: si pente, chiede aiuto, si disintossica e ci ricade. Il resto è la storia di un calvario che investe tutta la famiglia e in particolar modo quel padre che farebbe qualsiasi cosa per poterlo aiutare.
RECENSIONI
Mica semplice rappresentare il dolore. È una questione di delicatezza e di tatto, di responsabilità, di consapevolezza dei propri limiti, prima che dei propri mezzi; di fare un passo indietro con la testa quando la pancia ne vorrebbe fare uno avanti. Il dolore, al cinema, è sempre una questione morale, di etica delle immagini, di rispetto. Perché nulla esige maggior rispetto e maggior (auto)controllo della messa in scena del dolore. Nulla rischia di risultare così grottesco e fuori misura, così sbagliato, finanche così offensivo, come la riduzione del dolore a sentimento meccanico, che esiste in quanto rappresentazione solo ed esclusivamente in funzione della reazione che pavlovianamente vuole suscitare nello spettatore. Cercare di stimolare le emozioni del pubblico in questo modo significa per forza di cose accarezzare soltanto la superficie di qualcosa che invece richiederebbe, per definizione, uno sguardo ben più profondo, perché connesso a quello che è il più umano dei sentimenti umani. Posso banalizzare l'amore e riuscire comunque a restituirne una dimensione poetica e fantastica (quanti teen drama vivono di una costruzione dell'amore fasulla e idealizzata senza per questo risultare necessariamente volgari e insolenti?), ma non posso banalizzare il dolore senza fare i conti con un'insormontabile problema di carattere etico. Non posso banalizzare il dolore e pretendere pure di risultare sincero. Perché non c'è poesia nel dolore, non c'è nessuna dimensione fantastica da ricostruire. C'è solo rigore, silenzio, ancora una volta, rispetto.
Nel suo giocare a carte scoperte con il dolore lancinante di un padre alle prese con il figlio tossicodipendente e, viceversa, con il dolore di un figlio che sembra incapace di uscire dalla violenta spirale in cui è sprofondato, Beautiful Boy è tutto qui: un grande, enorme, gigantesco errore di rappresentazione (aggravante: il film è tratto dalle autobiografie dei veri David e Nic Sheff). Felix Van Groeningen infatti, autore del già molto discutibile Alabama Monroe - Una storia d'amore, ha la mano troppo pesante per maneggiare un materiale delicato come questo e finisce inevitabilmente per mettere in scena la sofferenza nel modo più banale, superficiale e impertinente possibile. Il dolore qui è sempre al centro, mai trattenuto e controllato con rispetto (siamo esattamente all'opposto dell'intimismo di Manchester By The Sea) e invece costantemente urlato, esibito, sbandierato come fosse il più banale dei sentimenti, gettato in pasto ad uno spettatore che si presume passivo e pronto a commuoversi in sicurezza, senza mai farsi davvero male. E ancora, la superficie in cui resta incastrato il regista belga è una superficie fatta di immagini pulitissime e formalmente curate, che nulla hanno a che vedere con il dramma oggetto del racconto. Insomma, una sorta di filtro bellezza applicato arbitrariamente per alleggerire ed edulcorare il dolore, quasi a volerlo sminuire per renderlo quantomeno “accettabile”; come se questo fosse possibile.
Inoltre, quello che manca davvero in Beautiful Boy è il silenzio. La musica, utilizzata nel peggiore dei modi, carica ogni sequenza di un'enfasi sempre più ingombrante che è direttamente proporzionale alla magniloquenza di una playlist sparata a tutto volume: Mogwai, Massive Attack, i primi Sigur Rós, Nirvana, John Lennon, Tim Buckley, David Bowie, Aphex Twin, Neil Young, perfino i Pavlov's Dog (!), accompagnano una sequela impressionante di scene madri che finiscono per dirci poco oltre ai buoni gusti musicali dei protagonisti (o del regista) e che ancora una volta rendono clamorosamente evidente quanto manchi nel film quella giusta distanza necessaria per poter vedere, comprendere e rispettare il dramma.
Incapace di valorizzare i silenzi (non ce ne sono), per nulla abile nel dare il giusto peso alle parole (quel «I failed» che suggella la dolente, seppur temporanea, resa di un padre pronto ad abbandonare il figlio che ha tanto amato e per il quale ha tanto lottato meritava ben altro rilievo) ed eccessivamente pulito e compiaciuto nella costruzione delle sue immagini, a Felix Van Groeningen non resta altro che sovraccaricare i volti tormentati dei suoi attori, facendo emergere (leggasi portando in superficie) lo strazio che divora i personaggi. Da qui uno Steve Carell che va spesso fuori giri (ma non è colpa sua), mentre Chalamet è semplicemente vittima di un casting folle, tutto costruito sulla riproposizione, ben poco riguardosa, dell'ideale letterario e cinematografico del tossicodipendente bello e dannato (pessima in questo senso la sequenza in cui vaga nella notte con gli occhi persi nel vuoto, accompagnato dal tappeto sonoro di Svefn-g-englar dei Sigur Rós); un personaggio insomma, la cui scrittura è ingabbiata in un ruolo estremamente codificato e per questo ben poco sincero.
Si potrebbe poi parlare della gratuità della costruzione narrativa che, come in Alabama Monroe, alterna continuamente i piani temporali alla ricerca testarda della lacrima facile, del semplicismo con cui Van Groeningen mette in scena la fulminea resurrezione (dai tratti quasi cristologici) di Nic in seguito all'overdose o della vacuità dell'incipit in medias res, utile solo a dare le coordinate di un racconto che poi si ingarbuglia senza apparente motivo. Si potrebbe parlare di questo, di quello e di molte altre cose: ma, arrivati a questo punto, preferiamo il silenzio. Almeno qui.