TRAMA
Ernesto e Filippo sono due professori di liceo con un passato in comune e un presente in antitesi: l’uno rifiuta la tecnologia, l’altro è dipendente dal web. Per girare un documentario i due sono obbligati a scambiarsi di ruolo.
RECENSIONI
Massimiliano Bruno continua nel suo cinema popolare e coerente con se stesso, dopo la parentesi più ambiziosa de Gli ultimi saranno gli ultimi: in Beata ignoranza mette in commedia il conflitto tecnologico in Italia oggi, costruendo il racconto sul contrasto degli opposti (Giallini e Gassman colpo su colpo) che hanno qualcosa in comune, una donna e una figlia nel passato, e innestandolo parzialmente sul canovaccio del film in classe. Basato sempre su un'unica idea (com'era, per esempio, Nessuno mi può giudicare: Alice diventa una escort, punto), il quinto film dell'attore e regista romano va idealmente a monte dello scherzo dell'assurdo che muoveva Perfetti sconosciuti, con cui condivide Giallini, ne espone quasi la teoria: se nel film di Genovese si ipotizzava che degli amici mettessero il cellulare sul tavolo nell'arco di una sera, rendendo pubblico l'intimo, qui si ragiona proprio alla base della tecnologia che impregna la vita, c'è un analfabeta informatico che deve tecnologizzarsi e viceversa. In tal senso suona funzionale la scelta di sceneggiatura di assegnare ai due uomini i medesimi anni, un'età di mezzo che li rende rispettivamente web addicted e analogico per scelta, non per anagrafe o spirito del tempo: nessun divario tecnologico inevitabile, quindi, ma due decisioni consapevoli e nel loro estremismo perfino teoriche, porsi tenacemente dentro e fuori dalla comunità dei social network. Tra i tanti film che sottintendono l'autorappresentazione di sé su facebook e twitter, questo ne parla direttamente. Al solito, nella scrittura di Bruno, il congegno comico si applica alla contemporaneità: c'è un citazionismo riconoscibile, una chiamata all'immedesimazione che ci specchia nell'archetipo, come subito attestato dalla presentazione invertita di un personaggio che introduce l'altro. Ernesto e Filippo, descrivendosi a vicenda attraverso le proprie soggettività, espongono due tipi umani evidenti che trascinano sul loro terreno: ci si chiama come Che Guevara e si fuma il sigaro, dunque, al muro c'è il poster di Zabriskie Point come stereotipo del feticcio post-sessantottino, nel flashback immaginario il quadro di Andreotti ingrandisce ed esplicita la nostra già chiarissima Storia. E noi ci riconosciamo.
Dopo aver stabilito le regole il regista conduce la partita che, va detto, gradualmente perde intensità e si sgonfia, indebolendosi molto nel corso della sua progressione: lo dimostra, una per tutti, l'idea diegetica di girare un documentario sugli eventi del film, svolta metacinematografica che viene presentata senza alcuna intenzione concettuale, ma semplicemente per introdurre un altro personaggio (Nina, figlia di due padri), innescare l'intreccio e allungare il minutaggio. Così la messinscena del doc si risolve in un paio di microfoni in campo e nella sottotrama di un'operatrice che parla in dialetto. Allo stesso modo le due gambe comiche dell'assunto, la deriva social e la routine scolastica (con contaminazioni intrecciate), sfociano in uno svolgimento di prammatica: la storia preferisce ripiegare in un intimismo che trova l'approdo nel rapporto tra i protagonisti, il legame con la defunta moglie e il debito con la figlia, la correzione delle loro vite. Alla fine, naturalmente, si appianano i contrasti: il destino generazionale delle nascite 'a doppio padre' prosegue in una coazione a ripetere. Non è una colpa essere volutamente commerciali, e chiedere allo sguardo di prendervi parte: il cinema di Bruno è superficiale perché sceglie di agire in superficie e invita al suo gioco, con risultati a volte di partecipazione epidermica, a volte di fredda indifferenza.