TRAMA
I destini di quattro miserandi si intrecciano in modo imprevedibile: Jung-man scopre una borsa piena di denaro nell’armadietto della sauna dove lavora, Tae-young è nei guai dopo che la sua ragazza è scappata con l’incasso di uno strozzino, Mi-run trova un giovane amante che si offre di ucciderle il marito violento. Il colore dei soldi (e dell’avarizia) diventa il rosso del sangue in questo puzzle di vite grottesche.
RECENSIONI
La storia recente del cinema coreano (del Sud, di quello del Nord non è ovviamente dato sapere) ci insegna che l'autorialità è progressivamente diventata una caratteristica scomoda e quasi proibita, e che in patria l'unica via per avere sostegno, visibilità e apprezzamento è quella della produzione pop di massa. Il film dal grande incasso, insomma, con in aggiunta una ghiotta possibilità di esportazione. Il ragionamento, qui espresso in modo sicuramente semplificatorio e spannometrico, è utile per comprendere la qualità derivativa di quasi tutti i progetti Made in Korea, e anche il motivo per il quale registi osannati dai festival di mezzo mondo (su tutti Kim Ki-duk e Park Chan-wook, che pure sono stati i numi tutelari della cosiddetta hallyu, la Nuova Onda che ha sancito l'incremento della fama globale della cultura sudcoreana a partire dagli anni '90) siano completamente misconosciuti e ostracizzati dalla loro industria. Per farsi un'idea basta aver visto una manciata di titoli appartenenti all'ultimo lustro produttivo, come – peschiamo dal mucchio – Sori: Voice From the Heart (2016), Train to Busan (2016), Forgotten (2017), A Taxi Driver (2017), Exit (2019). Si può parlare di tutto, non c'è censura sui generi, basta che il risultato sia progettato per soddisfare la più ampia platea possibile. “Professionale”, in Corea, è divenuto sinonimo di “vendibile” e “appetibile”, secondo una logica che porta il prodotto cinematografico ad essere “un abile pacchetto commerciale che trasuda autostima” (Darcy Parquet, www.fareastfilm.com). In questo gioco all'omologazione, il risvolto più anomalo è la spersonalizzazione dell'opera d'arte: per quanto il risultato sia inappuntabile in ogni suo minimo dettaglio, è difficile venga associato al nome di un regista e alla sua precedente o futura carriera. A meno di non chiamarsi Bong Joon-ho, probabilmente l'unico in questi ultimi anni ad essere stato in grado di costruire passo dopo passo, con furbizia e lungimiranza, una visione autoriale / autorevole attraverso il lavoro mainstream.
Visto così, Beasts Clawing at Straws (letteralmente, “Bestie che si aggrappano a tutto”) è il perfetto rappresentante di questa programmatica – i teorici dei Cahiers du Cinéma ci perdoneranno – politique des auteurs “manqués”: un film inattaccabile da un punto di vista formale, estetico e contenutistico, in cui l'impronta del regista è pressoché inesistente. Il neo-crime-noir dell'esordiente Kim Yong-hoon frulla gangster da quattro soldi, dame doppiogiochiste e amorali, assassini muti, imbroglioni a caccia di guadagni facili e detective stralunati, pescando a piene mani da seminali cliché di matrice americana. Uno sbalorditivo congegno cinefilo in cui paradossalmente ci si stupisce di continuo nonostante tutto rimandi ad esperienze filmiche già vissute, che trae il meglio dai Coen di Fargo e Non è un paese per vecchi e dal Tarantino di Pulp Fiction, con annessa tipica suddivisione in capitoli (Debt, Sucker, Food Chain, Shark, Lucky Strike e Money Bag). E per i palati più esigenti c'è anche il macguffin, qui rappresentato da una borsa di Louis Vuitton piena di soldi – scoperta dal dipendente di un hotel situato nella città portuale di Pyeongtaek – destinata a scatenare una ridda di incontrollabili eventi a cascata. Non si può chiedere di meglio a Beasts Clawing at Straws, viste le premesse di cui sopra; ma lo stesso ci si può rammaricare ad esempio per la mancanza di profondità dei personaggi (anche i più riusciti, come la femme fatale interpretata dalla superstar Jeon Do-yeon), la cui concezione caricaturale d'altro canto aiuta a rendere credibili e chiari i complicati colpi di scena. O per l'asettica e persino maniacale pulizia dell'insieme, che impedisce anche il benché minimo coinvolgimento emotivo. Beasts Clawing at Straws è lo zenit del cinema coreano contemporaneo, il prototipo perfetto di un nuovo e collaudato modo di intendere l'arte. Resta da capire quanto questa notizia sia positiva e quanto, invece, rappresenti un pericoloso e allarmante punto di non ritorno.