TRAMA
Mike D e Adam Horovitz dei Beastie Boys raccontano la storia della loro amicizia e della loro avventura musicale.
RECENSIONI
Another dimension?
Che questo auto-omaggio a una carriera passi attraverso la regia e la concezione di Spike Jonze non sorprende: l’americano è stata una presenza costante nella carriera dei Beastie Boys, amico e collaboratore fin dagli albori (ha appena pubblicato un libro fotografico loro dedicato), è l’autore di Sabotage, che non è soltanto il loro video più famoso, ma anche uno dei vertici della videomusica degli anni 90 (che è come dire “di sempre”).
Cos’è questa Story? È innanzitutto uno spettacolo teatrale, una stand up conference, in cui Adam Horowitz e Mike Diamond, i due superstiti del trio, rileggono la loro strepitosa carriera e la loro amicizia, come prosecuzione di un discorso cominciato col memoir del 2018 (che vantava collaborazioni illustri, dallo stesso Jonze a Wes Anderson). Lo fanno supportati da foto e filmati di repertorio, riportando quando possibile anche la prospettiva del compianto Adam Yauch: lo fanno con il piglio cazzaro-dolente dei ragazzacci oramai cresciuti che hanno conosciuto, dopo i fasti e le follie, il dolore e il lutto.
Cosa vanta in più questa soluzione rispetto a un documentario tradizionale? Niente. Forse ha qualcosa in meno: la spontaneità nel raccontarsi, per esempio, o almeno il tentativo di metterla in campo. Perché non è un documentario sul fenomenale trio, ma il documentario sullo spettacolo in cui due dei protagonisti raccontano la storia dei Beastie Boys: Jonze, attorno al quadro della carriera, incorniciato al Brooklin’s King Theater, crea una cornice in più. Se gli artisti mettono in scena il loro percorso musicale e di vita come racconto orale illustrato, lo fanno proponendosi come attori nella parte di se stessi. Persino il momento emozionante dell’elogio a Yauch è parte di una recita replicata per tre sere, gobbo a disposizione. Se ci si racconta in questo modo, seguendo le linee di un copione e fingendo spontaneità, si disinnesca anche l’ironia che si intende sfoderare, la si irrigidisce in un rito. E la si inscatola due volte, sul palcoscenico e sullo schermo.
Ma forse tutta la questione è inquadrata male dal principio, forse è il lancio Apple con fanfara a essere stato fuorviante: ci ha fatto ritenere che l’importanza di questa TBBS trascendesse il documento sulla carriera dei Beastie Boys, che fosse anche una sfida concettuale (e la firma di Jonze supportava questa finta convinzione), laddove al massimo, presa visione, azzardo un parallelo inquietante con le presentazioni à la Steve Jobs…
Poi il racconto c’è - denso e degno di essere conosciuto -, la musica pure - i fan hanno di che essere contenti -, ma, spiace dirlo, questa formula, controllata fino alla narcosi (e non vorrei aprire il mio solito discorso su Jonze sovrano del linguaggio breve e in affanno su quello lungo), sembra proprio lavorare contro lo spirito disarmante, selvaggio, privo di filtri che aveva contraddistinto l’arte dei Boys, travestendo con la pesantezza delle intenzioni anche quella meravigliosa sostanza umana che ha nutrito la loro esperienza (tre amici per la pelle decidono di non lasciarsi mai: con la morte di Yauch la fine dei Beastie Boys è nei fatti, prima che nei comunicati ufficiali - «Quando abbiamo perso Adam, abbiamo smesso di essere un gruppo» -).
E dal punto di vista strettamente filmico, nessuna another dimension (another dimension), nessuna invenzione, nessun guizzo. Calma piatta.