Drammatico, Netflix

BEACH RATS

TRAMA

Un adolescente allo sbaraglio lotta per sfuggire alla sua triste vita familiare e avere delle risposte sulla sua identità. Nel frattempo, trascorre del tempo con compagnie poco raccomandabili.

RECENSIONI

Dopo It Felt Like Love - ipotesi negata di amore su richiesta, da stabilire, prima che da provare, così da dirsi finalmente adulti - e prima di Never Rarely Sometimes Always - quattro avverbi messi in fila per costringere nella gabbia asettica di un questionario il dramma di una gravidanza non prevista e indesiderata - è Beach Rats il titolo scelto dalla newyorkese Eliza Hittman al suo secondo lungo. Non "tipi" ma "topi" da spiaggia; "ratti", addirittura: quattro ragazzotti dei sobborghi di New York - la canotta bianca come divisa e stato delle mente - che saltabeccano svogliatamente da un luogo all'altro della città, disegnando una topografia white trash orientata alla perdita e allo spreco, del proprio tempo e di se stessi, tra una canna condivisa a Coney Island e una pastiglia di Oxy sottratta a un genitore morituro. Si guardan vivere, questi vitelloni post litteram, aggiornati al tempo delll'amore in videochat e dell'empatia azzerata, come i gabbiani che la webcam piazzata sulla spiaggia cattura nell'inquadratura fissa trasferita sul desktop del pc in tempo reale. Primus inter pares, fra di loro, Frankie, relegato in un a parte da quella sua bellezza statuaria che dal principio fa di lui una cosa altra, destinata a penetrare attraverso il tormento di un'identità sessuale incerta l'involucro granitico di quella virilità da esibirsi a tutti i costi. Se il titolo guarda al gruppo, al branco, alla dimensione collettiva a cui Frankie non può fare a meno di render conto, il fuoco del film è tutto su di lui, sul suo corpo e sulla relativa ricerca di una maniera appropriata - per il gruppo, prima; per sé, poi - di appagarlo, in una dinamica centrifuga che spinge il protagonista dentro e fuori quell'insieme, fotografando lo scarto doloroso di chi cerca se stesso nello sguardo altrui. Nello specchio, cioè, di un cellulare, a cui Frankie affida la rielaborazione macho della propria immagine; nello spazio virtuale di una videochat, dove mette alla prova se stesso attraverso l'incontro con altri uomini, o negli occhi languidi di una ragazza al cui amore si arrende per conformismo, per necessità di aderire a un ruolo prefissato. Tutto passa per quel corpo - testato, amato, bistrattato -, in un percorso accidentato ed epidermico, sensuale, che non ha bisogno di scalfire la superficie per registrare gli smottamenti di una coscienza inquieta di ragazzo. Il movimento, se c'è, non va da nessuna parte: rigorosamente orizzontale, si irradia da un centro espandendosi a macchia d'olio verso una pluralità inesausta di direzioni, e non è un caso che tanti dei luoghi in cui la vicenda è ambientata siano per lo più di passaggio, di transito (treni, tram, o quella nave che gira programmaticamente a vuoto nella baia, dando ai suoi passeggeri il tempo di far festa). Non conosce approdo, il viaggio di Frankie dentro se stesso, né porto sicuro ove attraccare: quella che Hittman rivendica, in fondo, è la libertà, sacrosanta, di smarrirsi e strabordare, bucando i confini troppo stretti di qualsivoglia definizione.