Bellico, Recensione

BASTARDI SENZA GLORIA

TRAMA

C’era una volta nella Francia occupata dai nazisti: Hans Landa, colonnello SS, cacciatore di ebrei, a cui, in una missione, sfugge la giovane Shosanna, da lì a breve tenutaria di un cinema; Aldo Raine, tenente a capo dei Bastardi, un gruppo di soldati americani dediti al repulisti di nazisti, di cui collezionano scalpi. E poi attrici di cinema, esponenti del Reich e del governo inglese, viscidi e romantici eroi di guerra…

RECENSIONI

Inglorious basterds (omaggio a Quel maledetto treno blindato di Castellari, non certo remake) conferma ciò che i body double di Death proof, a piglio ludico e umore funereo, teorizzavano: il cinema di Tarantino è controfigura autosufficiente, digestione di universi altri (ormai) senza debiti da pagare, mondo sospeso nel proprio feticismo cinefilo, involuto con rassegnato onanismo in se stesso e, soprattutto, immune alla verosimiglianza, alle logiche verocondizionali, ai nessi causa/effetto, ai meccanismi psicologici condivisi, beffardo nei confronti delle attese dello spettatore, insolente di fronte a quell'orizzonte educato da visioni pregresse, assorbite, sistematicamente confermate, noncurante delle regole del gioco a cui allo stesso tempo dichiara di ispirarsi, fottendosene infatti delle norme del cinema codificato per antonomasia, quello definito di genere. Questo proclamavano i corpi schizofrenici e astratti che popolavano l'esile trama (secca, come una dimostrazione) di Death proof , questo ribadisce Inglorious basterds [1]: veste sfatta da b-movie, equilibrio narrativo caracollante, coralità sbalestrata e incompiuta, apparato citazionista di densità imbarazzante (il genere all'italiana è referente costante, Lubitsch si sposa con Aldrich, si fanno nomi e cognomi, altrove qualcuno sciorinerà l'elenco completo dei rimandi) è un'opera sfilacciata abitata da personaggi mossi da logiche proprie, inesplicabili, inattese (il grottesco è un ombrello troppo minuto per coprire questi caratteri), eppure perfettamente coerenti. E' in questa coerenza, in questo equilibrio proprio ed intimo (nel senso di profondo, innato o acquisito che sia) che sta la grandezza (anche indigeribile, per carità) del cinema di Tarantino: la sua, come quella di Lynch [2], è una poetica fatta di scarti (in ogni senso), di slittamenti, di equilibri dati e poi minati, ed in Inglorious basterds la posta è sempre più alta, sempre più parossistica: ne risulta un film dove sistematicamente la tensione convive con la sua demistificazione, anche demenziale [3], senza che il registro dominante si ammorbidisca, si ovatti, un film dove ogni scarto, per quanto intenso o dissonante, viene riassorbito, accettato in un territorio le cui coordinate sono altre, in cui vigono altre leggi. Anche quelle del genere, come si diceva, vengono frustrate: Inglorious basterds è un war movie che all’action (rilegato a poche, sfolgoranti esplosioni) sostituisce scene dall'impianto teatrale, affilate di dialoghi e sguardi (anche se, ovviamente, tutt’altro che disarmate), mentre è al cinema che guarda con pretese alla realtà (per riprenderla e manipolarla, a scopo propagandistico) che sembra affibbiare l'etichetta exploitation, essendo il film-nazista-basato-su-una-storia-vera un continuum impietoso e senza pause di azione mortifera, di caduti sotto i colpi di un'arma da fuoco, un vero, ontologico, totale sfruttamento. Il rigore della verità storica non può perciò che sciogliersi, a contatto con il cinema di Tarantino: nel suo universo oniricamente slegato, scollato dal vero, il Terzo Reich muore in una sala cinematografica, bruciato da nitrato d'argento infiammato: insieme si affermano (con straziante impertinenza) la potenza immaginifica e l'impotenza fattuale della macchina dei sogni, regalando Tarantino agli occhi di chi guarda i limiti conclamati (e coscienti) del suo immaginario [4]. Oltre la gabbia della stilizzazione teorica in cui era rinchiusa l'anarchia di Death proof Inglorious basterds - lo dice tramite Aldo L'Apache, prima che la firma 'Quentin Tarantino' appaia sullo schermo - è il suo capolavoro. Ancora più libero, sfrenato, ludico, divertente. E, sotto la scorza, ovviamente, ancora più toccante, disarmante; ancora più dolorosamente inadeguato.

Apoteosi postdisneyana che affoga il cinema nella cinefilia, Inglourious Basterds è opera tematicamente blindata (la vendetta ebraica), esteticamente cingolata (cinemascope a colori Miramax) e teoricamente inattaccabile (il Cinema raddrizza i torti della Storia). Come raccontare allora la sensazione di rigidità, compiacimento ed estenuazione che ho provato a partire dal secondo capitolo di Bastardi senza gloria? Il modo più ovvio sarebbe quello di concentrarsi sui singoli aspetti del film che a mio avviso non funzionano (il più appariscente dei quali consisterebbe nella ventiseienne Mélanie Laurent, clone malriuscito di Uma), ma temo che questa strada mi porterebbe ad un goffo elenco di impressioni soggettive tanto meticolose quanto opinabili. No. Meglio parlare d'altro. Anziché lamentarmi inutilmente che Inglourious Basterds è talmente appannato dalla cinefilia (da Pabst a Schrader passando per Clouzot e Castellari in alta uniforme) da impedire al cinema di venire a galla, parlerò di un altro film. Un film del 1975 di Robert Enrico, regista e sceneggiatore francese attivo soprattutto negli anni '60 e '70, che presenta alcune analogie con quello di Tarantino.
Tradotto in italiano con un titolo di sublime demenzialità (Frau Marlene), Le Vieux Fusil è, mi si passi l'espressione, uno slasher bellico a tematica vendicativa: nella Francia del 1944 occupata dai nazisti, ad un chirurgo sensibile e coscienzioso (interpretato da Noiret) viene trucidata la famiglia (moglie e figlia) da una squadra di SS. Sconvolto dal dolore e stravolto dalla crudeltà del massacro (l'intero villaggio è stato sterminato), il pacifico chirurgo recupera il vecchio fucile del padre (donde il titolo originale) e si trasforma in una macchina da guerra eliminando uno dopo l'altro i responsabili dell'eccidio. Spazio chiuso (il castello di proprietà del chirurgo), presenza simultanea di tutti i colpevoli e trappola punitiva: le parziali assonanze con Bastardi senza gloria non possono non colpire. Ma non è tutto: anche ne Le Vieux Fusil compare la componente metafilmica (i nazi guardano un filmino vacanziero trovato nel castello) e la narrazione è intercalata da flashback che illustrano il passato della famiglia Dandieu. E, dulcis in fundo, la vendetta nei confronti del maggiore responsabile della carneficina è specularmente incendiaria: nascosto dietro un falso specchio, il chirurgo punta il lanciafiamme verso l'ufficiale delle SS posizionato di fronte a lui e lo investe con una vampata mortale, bucando la superficie riflettente. Curioso, nevvero?
Liberamente ispirato al massacro di Oradour-sur-Glane del 10 giugno 1944 (il più grande massacro di civili commesso in Francia dalle truppe naziste, costato la vita a 642 vittime e piuttosto simile alla strage di Marzabotto perpetrata in Italia), Le Vieux Fusil è un film di esasperato patetismo e ferocia fuori parametro. I flashback sbriciolano il muro del sentimentalismo con lacrimosa sfrontatezza (acuita dalla commovente bellezza di Romy Schneider che interpreta madame Dandieu) e la vendetta del chirurgo non conosce tentennamenti o esitazioni di sorta, degenerando in vero e proprio body count (i nazi vengono fatti fuori nei modi più svariati: dalle fucilate iniziali al lanciafiamme finale, passando per una testa fracassata su un lavandino e per un duplice annegamento nei sotterranei). Straordinario successo di pubblico in patria (3.400.000 spettatori), è inoltre il primo film francese in assoluto ad aver ricevuto il premio César (tre a dire il vero: Miglior film, Miglior attore - Philippe Noiret - e Miglior musica -François de Roubaix) e nel 1985 è stato addirittura insignito del prestigiosissimo César des Césars (unico film ad aver ricevuto tale riconoscimento insieme a Cyrano de Bergerac di Jean-Paul Rappenau del 1990). Trovate questo commento spudoratamente cinefilo, scarsamente incisivo e un po' paraculo? È la stessa sensazione che ho provato io guardando Inglourious Basterds.

PS- Giusto un paio di osservazioni più centrate: la prima riguarda la bellicosa cerimonia di vestizione di Shosanna sulle note della 'bowieschraderana' Putting Out Fire. Girata come un video anni '80 hitchockianamente predisposto (la scena nel foyer del cinema, con i suoi fastosi movimenti di macchina, non fa molto Notorious?), è la sola sequenza che mi pare comunicare limpidamente allo spettatore l'esaltazione tarantiniana che troppo spesso resta ingolfata. La seconda invece ha a che fare con una curiosità prettamente cinefila: per chi si domandasse dove diavolo sia Enzo Castellari, visto che di remake Bastardi senza gloria ha giusto il titolo originale (modificato), ebbene il più americano dei registi italiani interpreta un ufficiale in alta uniforme (bianca) che si vede nell'atrio del cinema di Shosanna. Si indovina una prima volta, leggermente fuori fuoco e in secondo piano, mentre Bridget von Hammersmark (Diane Kruger) confabula con Aldo Raine (Brad Pitt), Donny Donowitz (Eli Rth) e Omar Ulmer (Omar Doom). Poi, quando Landa (Christoph Waltz) si unisce al quartetto, Castellari è spesso al centro dell'inquadratura e legge il programma della serata, anche se rimane sempre in secondo piano. Se non vado errato, si scorge anche una cameriera che gli offre qualcosa da bere ma lui rifiuta gentilmente. Vado a memoria, sicché la descrizione della dinamica della sequenza va presa con beneficio d'inventario, ma quel personaggio è l'inconfondibile autore di Quel maledetto treno blindato.

A Tarantino piace giocare, si sa: si diverte a saltellare avanti e indietro nelle storie, a svuotare di senso i generi del cinema e a mischiarli tutti assieme, a ripetere e a ripetersi; postmoderno non per adesione a freddo, ma per intima visione dell'arte come gioco, un gioco allo stesso tempo altamente consapevole e mai privo di quella ingenuità, di quel divertimento spontaneo e bambinesco che è l'essenza di ogni processo di immedesimazione.
Film come giocattoli, dunque, e in maniera sempre più chiara e cosciente [1] fino a Inglorious basterd che, anche solo per la scelta di assimilare a una certa estetica pulp e ridanciana un argomento caldo come la Seconda Guerra Mondiale, costituisce un notevole passo in avanti: un gioco per grandi, allora. Così Tarantino ride di tutto e di tutti, della « cosa » (la guerra e le sue parti, nazisti e alleati) come della forma (le convenzioni rappresentative legate a quella) come, ancora di più, dello spettatore e delle reazioni [2] che si diverte a suscitare; il gioco tarantiniano è dunque un cortocircuito in cui il film parla di sé nel suo svolgersi: accade, per esempio, nella prima, superba scena: quanto ammiccare in quel movimento mozzafiato della cinepresa che scende sotto le assi del pavimento per svelare allo spettatore, e solo a lui, il nascondiglio degli ebrei.
Ma è davvero solo gioco? In realtà è nello stesso giocare che si risolve (dissolve?) la serietà di Tarantino: quella dissacrazione profonda non risparmia nessuno, il cinismo crudele in cui il mondo sembra affogare non lascia alcun barlume di speranza, né « dentro » l'universo diegetico, né « fuori ». « Dentro » saltano gli abituali punti di riferimento, sia in senso storico (mitografia del soldato americano) che narratologico con la certificata morte dell'eroe: i protagonisti, quale che sia il loro schieramento, sono tutti dei bastardi assetati di sangue e di potere, disposti a tutto pur di sopravvivere e che nella loro ottica rendono ridicola ogni scelta fondata su una impostazione morale [3]; incapaci, peraltro, di portare a termine qualsiasi piano offensivo che non consista nello scalpare la testa di qualcuno o nell'inciderci su una svastica. Qual è il motivo di quella lunghissima (troppo) scena nel bar se non quello di insistere fino al parossismo sull'assoluta incapacità del temibile gruppo, incapacità che diventa comica quando Aldo e compagni si fingono italiani con Hans nel foyer del cinema e inquietante nel finale, in quella inquadratura, per me in assoluto la più violenta, in cui, con profondità di campo minima, la cinepresa riprende i corpi schiacciati che si accalcano verso l'uscita del cinema e gli ultimi due Bastardi rimasti dentro che sparano all'impazzata sulla folla inerme, ormai senza alcun vantaggio? Tarantino non ribalta la Storia, piuttosto, ancora, ci gioca e giocando [4] ce ne parla con lucidità; Inglorious basterd è un mondo abitato da un'umanità degradata, abbandonata alla propria brutalità animale: non è un paese per gli eroi ovvero per chi dà Senso, anche narratologicamente, a una storia, facendola ruotare, dominandola o meno, attorno a sé e alla propria vicenda: è il trionfo del non senso. Il tono epico inaugurato con Kill Bill [5] è conservato, ma solo per rovesciarlo e rendere ridicola una volta di più quell'umanità che tutto è tranne che epica: quello dei Basterd è Anti Epos, è un mondo di demoni in cui il sacrificio di Shoshanna, unico lampo di luce, pone sì fine alla guerra, ma a chi affida il mondo? Agli Hans e agli Aldo: ai soliti bastardi, insomma.
Ma Tarantino va molto più lontano: si diceva prima del crollo dei punti di riferimento « fuori » dal mondo diegetico; a questo proposito il riferimento alla sequenza metacinematografica dell'Orgoglio della Nazione, vista con gli occhi di uno spettatore d'eccezione, Hitler, rende chiaro che nella sala del piccolo cinema parigino di Shoshanna si duplica quello che accade nelle sale piccole e grandi di tutti i cinema del mondo in cui si proietta Inglorious basterd: uno spettatore bastardo che ride a crepapelle di un film bastardo in cui il protagonista non fa altro che ammazzare tutti quelli che gli capitano a tiro: quanta affinità con la scena citata poco sopra! Ancora una volta Tarantino attira nel suo gioco lo spettatore e gli chiede di partecipare a questa sorta di baccanale cinematografico in cui si celebra con allegria e un po' di crudeltà la fine di ogni illusione: davanti alle risate di Hitler siamo messi allo specchio, siamo smascherati come bastardi e invitati a ridere della nostra dissoluzione prima in quanto spettatori « seri » e poi in quanto uomini, essendo parte noi stessi del non senso del film che è il non senso delle cose; Tarantino ce lo ricorda: la dissoluzione non risparmia nulla se non il divertimento, il gioco, appunto. E tanto vale giocare.
Grandissimo Brad Pitt, riscoperto nella sua vena comica, e grandissimo Christopher Waltz.