TRAMA
Anni Ottanta, piena guerra fredda, Stati Uniti D’America: traffici illeciti e mercati d’armi uniscono la Casa Bianca di Ronald Reagan ai sandinisti in Nicaragua. Guerre sotterranee e rivoluzioni pilotate, di mezzo gran parte degli organi governativi degli States: CIA, DEA, FBI. Mancano soltanto i trafficanti del Cartello di Medellìn, la squadra guidata da Pablo Escobar, ma ci penserà l’intraprendente Barry Seal a rammendare il tutto con un sottile, infinito filo di polvere bianca.
RECENSIONI
La prima cosa che colpisce nel racconto scorsesiano che Doug Liman dedica a Seal, paradossale icona criminale del mito americano, è il modo in cui tutte le parti in causa non siano mai chiamate a compiere qualcosa in nome di valori come “giustizia” o “legalità”, neanche quegli stessi uffici statali teoricamente preposti a perseguire tali principi. I viaggi che Barry fa attraverso le due Americhe, gli accordi e tradimenti di cui è portavoce e dei quali non tarda ad approfittare in prima persona, sono sempre e solo questione di soldi. Tra biechi trafficanti, pigri guerriglieri e politici interessati soltanto alle dietrologie dello scacchiere internazionale, non c’è vera ideologia nelle sciarade American Made (questo il caustico titolo originale) degli anni Ottanta reaganiani, se non quella del costante, gargantuesco arricchimento personale. Tutto è in vendita al migliore offerente, in nome di denaro o carriera, tanto l’etica di sevizi segreti compiacenti quanto l’anima dello stesso Seal, asceso all’altare della celebrità attraverso il corpo e l’energia della star americana per eccellenza, Tom Cruise. Che il duo Liman/Cruise sapesse lavorare sul concetto di fama era già chiaro con Edge of Tomorrow, splendido meccanismo di genere incentrato tutto sul farsi della star in quanto tale – cos’erano del resto i costanti reboot subiti dal Maggiore William Cage se non i passi di una progressiva trasformazione del personaggio nell’icona Tom Cruise? Anche in Barry Seal – Una storia americana lo star power di Cruise svolge un ruolo cruciale. In assenza della benché minima analisi psicologica, immersi in un flusso costante di eventi vagamente storicizzati e pressoché privi di approfondimento, gli spettatori trovano il loro unico punto di riferimento nell’immagine cartoonesca, invero esilarante, di Seal/Cruise, personaggio accattivante e carismatico in cui l’icona diventa parte sostanziale di quel processo di vendita del sé attraverso il quale lo stesso Seal ha costruito la sua fortuna.
Per quanto alla lontana rispetto all’originale, il Seal di Cruise è un altro lupo che basa il suo potere sulla seduzione dell’immagine. Così, in un film che è tutto una compravendita internazionale, Liman e Cruise ci vendono quella “simpatica canaglia” di Barry, protagonista di una narrazione a ritroso che richiama la criminalità pop di Scorsese ma del quale restano soltanto gli elementi più appariscenti, i lustrini, con tanto di musica rock, voce narrante e rapido montaggio temporale. Liman però finisce per pagare questa totale adesione al realismo isterico del suo personaggio, rendendo il film una corsa priva di attimi di respiro e riflessione. Ogni frammento e dettaglio porta alla scena successiva, al volo successivo, in un accumulo che aumenta il livello di spettacolarità e divertimento (considerata l’assurdità delle vicende raccontate) ma dentro il quale personaggi e situazioni non possono trovare il tempo di svilupparsi e maturare – e ciò lascia cicatrici evidenti in fase di montaggio, su tutte quella dello sceriffo interpretato da Jesse Plemons. All’attivo resta ovviamente il peso divistico di Cruise, istrione e mattatore della scena, grazie al quale l’identificazione tra personaggio e racconto riesce ancora a funzionare, purché ci si accontenti di una carrellata temporale dal grande carisma ma dalla sostanza pressoché evanescente. Aggrava invece la situazione il modo con cui Liman abbia deciso di gestire in termini di regia la vaga veridicità della vicenda, e di qui il carattere di denuncia (all’acqua di rose) che attraversa blandamente il film. Barry Seal infatti riporta tutti i segni distintivi di certo cinema anni ’70, dalla patina granulosa allo zoom passando per una perenne camera a mano, ma Liman va oltre la filologia e di questi elementi fa un uso esasperato e costante, invadente nei confronti della materia del racconto e dell’immagine stessa. Il corpo dello stesso Cruise, coerentemente sempre in primo piano, viene aggredito, frammentato, schiacciato da un’irrefrenabile macchina da presa che confonde il realismo con l’invadenza di maniera e finisce così per depotenziare paradossalmente il motore primo dell’intera operazione.
