TRAMA
Irlanda, diciottesimo secolo: ascesa e caduta di Redmond Barry, avventuriero e arrampicatore sociale.
RECENSIONI
Barry Lyndon, nuova tappa di un percorso creativo in cui ogni stazione ha sempre coinciso con il dispiego di tecniche inedite e rivoluzionarie (l'ultima, il Motion Control di Eyes Wide Shut), dunque ulteriore capitolo del saggio di Kubrick sulle possibilità del Cinema (luce, spazio, inquadratura, regia) -, che nel 1975 suonò come un algido esercizio, poco convincente nella resa del dettaglio, molto compreso nelle sue visioni d'insieme, appare oggi per quello che è: la suprema rappresentazione di un secolo, il film del pianeta Settecento, quanto di più lontano da un lussuoso libro di illustrazioni, come molti allora liquidarono la straordinaria opera di un cineasta al suo acme creativo. Molto e giustamente si dirà dello splendore formale: quadri di inusitata perfezione (e parliamo di quadri non a caso, ché il riferimento ai dipinti dell'epoca sfiora il tableau vivant, altro che pedissequo realismo), paesaggi con figure, l'esposizione di un'epoca che trasfigura dunque in iconografia viva di un mondo morto e sepolto, zoomate sulla Storia (della pittura?) che diventano altra storia (quella del cinema) e non certo vuota forma, piuttosto profonda riflessione su un'era, sulla crudeltà e chiusura di una classe (il tentativo di scalata sociale di Redmond Barry è segnato in partenza dal destino della sconfitta), cupa e pessimistica ricognizione di un ambiente operata in abito sontuoso (altri direbbero "costume" richiamando un genere e limitando semplicisticamente l'opera ad esso, visione riduttiva che mal si attaglia all'humus multistratificato del film, laddove il genere in Kubrick è il mezzo e non il fine) che veste con la raggelata eleganza della movie-art un discorso politico, storico e filosofico di rara pregnanza. A lume di candela (nessuna concessione a fonti di luce artificiale, speciali lenti Zeiss, costruite per la NASA, per restituire le luci naturali dell'epoca - il Secolo dei Lumi mica a caso -) il romanzo di Thackeray (sceneggiato dallo stesso regista) riverbera nello schermo, tra chiaroscuri concettuali, in un film che Kubrick anni dopo dirà sbagliato. Noi facciamo finta di non aver sentito.

Dal romanzo di William Makepeace Thackeray (“Le memorie di Barry Lyndon”, 1843, modificato nel 1856), seguito fedelmente ad eccezione del finale, le avventure di un antieroe, anzi, di un uomo con alti ideali piegati dalla (sua) Storia in opportunismo cieco, in una parabola che lo porta dalle stalle alle stelle e poi, di nuovo, alle stalle (e il cinismo di Kubrick è appagato). Indimenticabile, a livello figurativo, per la ricercatezza (da qualcuno giustamente definita “masturbatoria”) che ne fa “un documentario sul Settecento” (Kubrick dixit) con tre anni di lavoro, senza teatri di posa, profilmici autentici e oggetti riprodotti fedelmente (persino le carte per il gioco d’azzardo), sperimentazioni rivoluzionarie (la fotografia di John Alcott basata solo su luci naturali, fosse anche il lume di una candela, adattando lenti satellitari del programma Apollo della Nasa; un nuovo tipo di zoom per movimenti più fluidi; un binario di 250 metri con tre cineprese per riprendere la scena della battaglia), vari riferimenti pittorici (Zoffany, Gainsborough, Watteau, Hogarth, Reynolds, Chardin, Stubbs e Chadowiecki per la parte polacca), opulenza nei costumi, nelle scenografie, nella scelta delle musiche (tutte, o quasi, rigorosamente di un’epoca in cui, secondo Kubrick, nacque la cultura del Novecento: tanto Bach, ma c’è anche il traditional “Words”). La voce fuori campo (si) racconta con ironia beffarda e si viene a creare una sorta di straniamento in rapporto all’eloquenza della materia e al coinvolgimento che dona la potenza del cinema del regista. Decisamente, però, è più di impatto la prima parte e il formalismo ha il sopravvento sulla drammaturgia (con sceneggiatura quasi improvvisata sul set): questo ha decretato l’unico (relativo agli incassi degli altri film) insuccesso di pubblico nella filmografia dell’autore. Ma, senz’altro e ancora, il genio di Kubrick ha rivoluzionato il film in costume, pur ereditando qualcosa dal seminale Piccolo Grande Uomo di Arthur Penn.
