TRAMA
Netturbino nella Pittsburgh degli anni ’50, Troy Maxson combatte ogni giorno contro le ingiustizie sociali e i demoni interiori. Spirito indomabile e ciarliero, ha una moglie, un’amante, un amico inseparabile e due figli di cui non approva le vocazioni. Lyons suona il jazz e Troy canta il blues, Cory pratica il football e Troy gioca a baseball. Chiuso nel recinto che sta costruendo per Rose e in quello che ha innalzato nel cuore, Troy è un’onda implacabile che frange i suoi affetti.
RECENSIONI
Barriere, traduzione sbrigativa, infelice ma soprattutto castrante dell'originale Fences, è un film-blues, definizione che non deve far pensare ad un film sul blues. Denzel Washington, attraverso il personaggio di Troy Maxson (di cui è anche interprete), protagonista della sua terza regia tratta dall'omonima pièce di August Wilson, riesce a delineare l'attitudine di quello che prima di essere un genere musicale è un mood, un vero e proprio modus vivendi che prende il nome dall'espressione inglese «to have the blue devils», letteralmente «avere i diavoli blu», che starebbe ad indicare lo stato d'animo di chi conosce da vicino i morsi della “bile nera”, della tenebrosa malinconia saturnina: individui segnati dalla predilezione della sventura, da una fatalistica cognizione del dolore, ma che, nonostante tutto, scelgono lo stesso di vivere e decidono di cantare («il blues è lo schiocco della mia lingua / agitata dalla morte che vivo» scriveva Sipho Sepamla). Non è disperazione, né protesta, piuttosto un materialismo spregiudicato.
Maxson ha il carisma e l'eloquio torrenziale di un predicatore, una storia alle spalle densa di contraddizioni che narra, con enfasi mitologica, come se fosse una parabola purgatoriale; è un personaggio complesso, sopra le righe, capace di esprimere il meglio di quanto c'è di buono e il peggio di ciò che è pessimo. Nei suoi flussi monologanti (del resto come sostiene Edoardo Fassio «il blues è quasi invariabilmente cantato in prima persona») dicendo di sé e del proprio destino allo stesso tempo racconta di una comunità che ha conosciuto la schiavitù e vive l'oppressione nella sua dimensione quotidiana: è libero sguardo individuale gettato sull'umore collettivo. Maxson è il patriarca di una famiglia allargata (lo stesso amico, Bono, vede in lui un modello paterno - «Ho imparato moltissime cose sulla vita osservandoti. Ho imparato a dire dove è la merda, a distinguerla dall'erba»-) sulla quale esercita un potere assoluto (la staccionata che sta costruendo attorno alla casa è metafora degli opposti del suo carattere: protezione e soffocamento) dal quale sembra possibile liberarsi soltanto per mezzo di un gesto di parricidio, lo stesso, del resto, che lui ha compiuto per diventare quello che è.
Washington, che risolve registicamente il film sfruttando l'armamentario retorico tipico del blues fatto di allegorie e metafore, pur rispettando l'unità di luogo e d'azione dell'originale testo teatrale è in grado, per mezzo, soprattutto, delle parole del suo protagonista, di far sentire la realtà collettiva che circonda questo gruppo di famiglia in un interno, un grumo di sofferenza e tensioni non poi così diverso da quello che opprime l'attuale paesaggio sociale; c'è infatti c’è una bella affermazione di Alan Lomax, uno dei più importanti ricercatori e studiosi delle radici del blues, che dice: «l’hanno chiamata l’età dell’ansia ma forse sarebbe meglio definire il novecento il secolo del blues. Il blues è diventato il genere musicale più familiare alla modernità perché oggi tutto il genere umano comincia a sperimentare la stessa malinconia dei neri [...], quel senso di anomia e alienazione, l’assenza o la precarietà delle radici, la sensazione di essere merci più che persone…».