TRAMA
Silverio Gama, famoso giornalista e documentarista messicano, attraversa una crisi esistenziale e si trova a dover affrontare questioni inerenti la sua identità, le relazioni familiari e la follia dei suoi ricordi.
RECENSIONI
Ordinare la filmografia di Iñárritu, autore da sempre e per sempre ostinato amante del virtuosismo (in)giustificato, è impresa fin troppo semplice. Così come Amores perros, 21 grammi e Babel andavano a costituire la dichiarata Trilogia della morte, Bardo, con Birdman e Revenant, potrebbe chiudere (?) un'ideale trilogia sul confine, su uno stato perennemente transitorio tra la vita e la morte, tra la morte e la rinascita (il bardo per alcune dottrine buddiste ha esattamente questo significato), tra realtà e rappresentazione, tra verità e finzione, tra l'Io e la propria coscienza. Una suddivisione tematica questa che, per quanto precisa, appare addirittura meno evidente rispetto a quella stilistica: se nel primo caso infatti il sodalizio con lo sceneggiatore Guillermo Arriaga ha portato il cinema del nostro verso una direzione in cui a risaltare in primissima battuta era la complessità di una narrazione episodica e frammentata, in questa seconda fase (dominata prima dalla presenza di Emmanuel Lubezki e ora di Darius Khondji) a fare la voce grossa è senza dubbio l'esibizione virtuosa del dispositivo, il gesto cinematografico prepotente e onnipotente, che si manifesta in immagini spudoratamente belle (nel senso, spesso, più immediato e banale del termine) e vertiginosi piani sequenza, ma anche, a monte, in imprese produttive portate a termine all'interno di contesti climatici estremi e avversi (Revenant).
Magniloquente e fastidioso, pomposo e superficiale, talentuoso e insopportabile, vuoto e ridondante, furbo e presuntuoso, tronfio e derivativo: Iñárritu - con qualche rara, ma insindacabile eccezione - è senza dubbio tutto questo, e Bardo, che nelle intenzioni e nei fatti è dichiaratamente il film più personale del regista (trattasi del suo secondo film interamente prodotto e girato in Messico, dopo Amores perros), non può che riflettere tutto questo. Ma ora che anche qui ci siamo tolti il peso di riportare una selezione dei migliori aggettivi con cui l'ultimo film dell'autore messicano è stato prevedibilmente liquidato e perculato, possiamo finalmente provare a (ri)pensarlo, a collocarlo, a dare una dimora e un senso ad immagini che, proprio nel prestare così apertamente il fianco a critiche di ogni tipo e correndo indubbiamente il rischio di sovrainterpretare e sovrastimare, mi sembrano perfino più interessanti di quanto vorrebbero.
Insomma, Bardo è senza dubbio un'opera di un egotismo sfrenato, che però si manifesta in modo talmente palese e marcato, da lasciare intendere che il perno dell'operazione sia proprio lì, nel narcisismo smodato e nel gigantismo compiaciuto del suo autore. In questo - e tralasciando qualsiasi impietoso e inutile confronto di valore - la distanza dagli ovvi modelli di riferimento è evidente: rispetto al Fellini di 8 1/2 (ma anche al Sorrentino de La grande bellezza), non c'è alcuna apertura, nessun approdo a quel sentimento universale che ad un certo punto finisce per scavallare l'ego del creatore e donarsi liberamente allo spettatore. E ancora, rispetto alla rielaborazione autobiografica del Jodorowsky de La danza della realtà e di Poesia senza fine, Bardo non poggia su una filosofia articolata e personale, su una maturità di pensiero condivisa nel corso di una vita intera, che naturalmente esonda i confini dei film in questione e partecipa attivamente alla visione e alla lettura. Proprio come il suo Silverio Gama, Iñárritu cammina invece costantemente sulla superficie delle cose e delle immagini e ancora, procedendo per accumulo di situazioni bizzarre e onirismi vari, (si) sbeffeggia a destra e a manca, inserendo a più riprese voci critiche e momenti di esegesi dell'opera in corso, alludendo e citando la qualunque (oltre ai modelli di cui sopra, anche Bergman, Kusturica, I Cannibali di Liliana Cavani, il videoclip di Just dei Radiohead diretto da Jamie Thraves…) e provando a mettere in scena una crisi personale che è anche una riflessione - naturalmente egoriferita - sul proprio paese e sulla Storia, nella forma di un piagnisteo che, in fin dei conti, non interessa a nessuno all'infuori del suo autore.
Quel che invece potrebbe (dovrebbe) interessare è la forma di tale onanismo, il suo apparire così sfacciatamente gratuito, vuoto e fragile, mentre immagini oggettivamente (algoritmicamente) belle e virtuosismi esasperati chiedono la nostra immediata attenzione. Più che una profonda meditazione autoriale fuori tempo sui massimi sistemi, Bardo finisce allora per essere simile alla narrazione ombelicale di un profilo Instagram - non-luogo narcisistico per eccellenza del contemporaneo, te(a)tro liminare tra la vita e la morte -, del quale sembra voler replicare le sue dinamiche comunicative, la sua assenza di profondità, la banalità e il presuntuoso desiderio di onnipotenza dell'Io. Operazione consapevole o inconsapevole? Propendo per la prima, ma non ha importanza. Quello di Iñárritu è un film che volente o nolente ci dice qualcosa de(lle immagini e della comunicazione de)i nostri tempi, e che per questo mi pare poco interessante incasellare nelle categorie stantie del “bello” o del “brutto”; è anche un film che banalmente chiederebbe l'esperienza del grande schermo e invece finisce per essere immediatamente sballottato nel flusso privo di gerarchie del catalogo Netflix, collocato tra un capolavoro classico del passato e una nuovissima e imperdibile serie da vedere sullo smartphone. E in fin dei conti è forse perfino più interessante che stia lì Bardo, che non manca di ribadire quanto la vita sia «solo una serie di immagini idiote» e il (suo) cinema «un'accozzaglia di scene senza senso [...] un plagio»: un j'accuse (moi-même) forse non così credibile, ma che se non altro finisce per dichiarare apertamente - e finalmente - la sua natura comatosa.
