Commedia, Drammatico, Recensione, Sala, Sentimentale

BABYTEETH

Titolo OriginaleBabyteeth
NazioneAustralia
Anno Produzione2019
Durata120'
Sceneggiatura
Trattodall'omonima opera teatrale di Rita Kalnejais (2012)
Fotografia
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Milla, collegiale quindicenne, sta contemplando la possibilità di buttarsi sotto la metropolitana quando davanti a lei irrompe Moses, un ventenne senza fissa dimora. È un incontro fatale in molti sensi, perché sia Milla che Moses hanno una certa familiarità con la morte, lei perché gravemente malata, lui perché tossicodipendente. Entrambi provengono da famiglie borghesi che sarebbe errato definire “normali”: Anna, la madre di Milla, si impasticca per superare la propria fragilità e la sofferenza per la malattia della figlia, e a fornirle ansiolitici e oppiacei è il marito Henry, psicologo con il proprio set di problematiche da affrontare. La madre di Moses invece ha messo il figlio alla porta, concentrandosi sul fratellino minore Isaac, mentre del padre dei due ragazzi non c’è traccia.

RECENSIONI

Lei: quindicenne afflitta da una malattia terminale, figlia di genitori affettuosi e imperfetti, vive in una famiglia borghese come tante. Lui: ventenne tossicodipendente ripudiato dalla madre e cacciato da casa, padre assente, sopravvive spacciando medicinali e dormendo dove capita. Casualmente, lui salva lei dal suicidio. Si incontrano. Si conoscono. Si innamorano, rapidamente; che di tempo non ne resta poi così tanto.
Scegliendo di adattare l'omonimo testo teatrale di Rita Kalnejais (autrice anche della sceneggiatura), la regista australiana Shannon Murphy esordisce nel lungometraggio raccontando una storia che poggia su una base sicura e su situazioni volutamente prevedibili e codificate. La strada più battuta però, in questi casi, è sempre la più difficile: perché abbracciare temi già esplorati in lungo e in largo riuscendo a far emergere una voce personale o quantomeno uno scarto rispetto, ad esempio, ai numerosi teen drama sul dolore e sulla malattia che affollano gli schermi del cinema e della televisione è, oggi (sempre), un'impresa non da poco. Ecco allora che se l'esordio di Shannon Murphy può a buon diritto essere definito “sorprendente” non è tanto per ambizioni o per maturità di linguaggio (che pure ci sono, in una certa misura), quanto per le sue capacità di esplorare una storia vista così tante volte con uno sguardo sufficientemente fresco e originale, capace di esaltare la vivacità e l'irruenza dei personaggi e, allo stesso tempo, di rispettare il loro dolore.

Dovrebbe essere già evidente a questo punto: ci troviamo in una situazione diametralmente opposta rispetto ad un Beautiful Boy qualunque (ne scrivevo pochi mesi fa, cercando maldestramente di porre l'attenzione su una questione “etica”, “morale”, di rappresentabilità del dolore e di self control nella messa in scena del dramma). Murphy affronta la sofferenza dei suoi personaggi con tutta la sensibilità che era mancata a van Groeningen, condensando la solitudine e la disperazione di Milla e Moses (bravissimi Eliza Scanlen e Toby Wallace, ma i genitori di lei, interpretati da Ben Mendelsohn e Essie Davis, non sono da meno) in uno sguardo, in un gesto, in un silenzio un po' più lungo del necessario. Insomma, Babyteeth è un film che se non altro ha l'accortezza di non immergere lo spettatore in una spirale del dolore tanto diretta e immediata, quanto superficiale e maldestra. La scelta di lasciare la malattia (e la morte) costantemente fuori campo, lungi dall'essere un banale e frettoloso tentativo di aggirare le difficoltà di rappresentazione di cui sopra, consente invece di osservare le cose con uno sguardo differente, più sincero e vicino ai personaggi, per nulla morboso. Uno sguardo in cui commedia e tragedia convivono perfettamente e quindi, in una parola, uno sguardo più umano.

Suddiviso in brevi capitoli, Babyteeth fa dell'ellissi la cifra narrativa predominante e sposta l'attenzione dalla disperazione per l'inevitabilità e l'incombenza di una fine insensata, ad un'attesa che, nonostante la piena consapevolezza della sua fatalità, è ancora in grado di riservare attimi, frammenti, pieni di gioia e d'amore; anche per due anime solitarie come quelle di Milla e Moses. Insomma, in questo film che finalmente rispetta il dolore, perché si pone il problema della sua (ir)rapresentabilità, Shannon Murphy rischia tanto e sbaglia poco, valorizza al meglio la bella scrittura di Rita Kalnejais e filma almeno un paio di sequenze sinceramente commoventi. Il suo merito più grande è forse quello di aver creduto nell'intelligenza emotiva dello spettatore e di aver scelto di conseguenza un linguaggio accessibile a tutti, ma anche raffinato; volutamente e ironicamente didascalico (i titoli dei capitoli), eppure affatto banale. Una misura che mi sembra per lo più giusta e rispettosa, distante quanto basta per trasmettere il calore del dramma senza cedere da un lato al gelido cinismo autoriale e dall'altro alla trappola del facile ricatto piagnone e superficiale. Mica cosa da poco, in questo racconto di formazione senza futuro. In questa scoperta dell'amore, che è sempre, nonostante tutto, un buon motivo per non abbandonarsi all'angoscia della fine. In questo film che si muove a un passo dalla morte, mentre invece celebra la vita.