TRAMA
Anna si trasferisce in un grande condominio di Oslo con il figlio Anders, 8 anni. Un marito violento ha segnato il suo passato. Per controllare il bimbo nell’altra stanza, Anna acquista un babycall…
RECENSIONI
Il regista norvegese Pål Sletaune aveva spaccato la platea di Venezia 2005 con Naboer: thriller/horror con sorpresa finale, sfacciata collezione di archetipi, congegno di apparenze con citazioni quasi irrispettose, volontà palese di spiazzare lo spettatore. Sei anni dopo, sostanzialmente, la stessa reazione si ripete con questo Babycall. Spostando decisamente il baricentro sull'horror, l'autore di Posta celere (unico film distribuito in Italia) prende ancora le mosse dal topos: c'è la madre disperata dopo il violento divorzio, il bambino introverso e taciturno, la trasfigurazione realtà/immaginazione con sovrapposizioni dell'una nell'altra, (presunti) fantasmi e apparizioni. Come il film precedente raccoglieva una suspense lynchiana-polanskiana (evidenti riferimenti a L'inquilino del terzo piano), allora, qui si riprendono i vari “cell horrors” dell'ultimo decennio (Phone, The Call...) e si coniugano addirittura allo Shyamalan touch di inizio 2000, ovvero il modello al quadrato.
Anche in Babycall le “sorprese” narrative sono ampiamente prevedibili. Di nuovo il regista ribadisce un certo disinteresse per la successione evenemenziale dei fatti; basti vedere con quale, indifferente naturalezza arriva la rivelazione finale sul conto di Anna. Dinanzi a una trama inverosimile, illogica, assurda - praticamente il collage di un immaginario -, Sletaune dimostra però un alto livello di consapevolezza: non sta solo proponendo stereotipi, ma li sta piegando alla propria impostazione con l'unico obiettivo di creare atmosfera. E' proprio questo il punto: l'ambiente, lo scenario, la capacità di evocare una sensazione si confermano specialità del regista, che sceglie volutamente di seguire le piste visive dell'intreccio, non quelle logiche. Ecco allora doppi (il marito di Anna/la figura di Helge), prospettive distorte (la scena del lago osservata da lontano), false piste (la fila di finestre nel cortile), errori percettivi fatali (l'omicidio del pre-finale). Non importa se gli indizi non hanno sbocco, il cerchio non si chiude logicamente, molti particolari sono fuori posto: l'horror non deve per forza andare da qualche parte, può anche tentare la pura, autonoma e legittima vertigine. Il “rifacitore” norvegese fa centro a livello inverosimile e istintuale, non è poco. Fondamentale la glacialità cromatica e sociale dello sfondo nordico, insieme a un'ansiogena Noomi Rapace sempre e letteralmente sull'orlo del baratro.
