Azione, Commedia

BABY DRIVER

Titolo OriginaleBaby Driver
NazioneU.S.A./ Gran Bretagna
Anno Produzione2017
Durata112'
Sceneggiatura
Fotografia

TRAMA

È giovane, al volante è un prodigio. Autista per bande di rapinatori, riesce come nessuno a lasciarsi dietro la polizia. Ma “Baby”, la sua storia e ciò che desidera sono molto altro…

RECENSIONI

Atlanta, Stati Uniti. Metti Bellbottoms dei Jon Spencer Blues Explosion e fanne colonna sonora di un giovane abilissimo driver che mima e coreografa performance ritmica e canora: attende i tre criminali che presto rientreranno in macchina con le armi e con i soldi.  Quel brano - racconta Edgar Wright ad Andrea Fornasiero su Film TV (n. 36, 2017) - «l’ho sentito quando avevo 21 anni. Mi ero appena trasferito a Londra e avevo solo piccolissime mansioni nel mondo del cinema, ma non potevo ascoltare questa canzone senza pensare a un inseguimento automobilistico, a partire da una rapina. È stata come una visione per me e sapevo di doverne fare qualcosa, così è nata quest’idea di un autista che ascolta la musica». Una sceneggiatura che il regista britannico, classe 1974, ha preso a coltivare solo nel 2010, molti anni dopo quel primo ascolto. Una produzione da 35 milioni di dollari e incassi felicissimi, forse la possibilità di un sequel. Baby Driver - Il genio della fuga fa ritorno a ciò che era già contenuto in minuscola parte nel videoclip di Blue Song, da lui diretto per i Mint Royale. Ed è opera che se attiva un dialogo con Drive di Refn (inizialmente, tra l’altro, anche il film di Wright doveva essere ambientato e realizzato a L.A.) lo fa nel paradosso, quasi in una forma rovesciata, sul piano ironico, iconico, emotivo; piuttosto remixa Tarantino e il Driver l’imprendibile di Walter Hill (che offre anche un suo cameo vocale…), Busby Berkeley con Una vita al massimo di Tony Scott  Vivere e morire a Los Angeles di Friedkin; prende Walt Disney e lo trasforma in John Landis; sintetizza Vincente Minnelli e Michel Gondry, il musical e il videoclip (guardare/ascoltare anche soltanto la sequenza trainata da Harlem Shuffle di Bob & Earl, brano a molti noto nella versione dei Rolling Stones);  infila il romanzo di formazione nell’action stiloso.

Una corsa tra generi del cinema e attraversamento pulsante di stili ed epoche musicali. Un autista con occhiali da sole a far forse da schermo protettivo verso il mondo; soprattutto, poi, auricolari e iPod sempre accesi  per cercare di smorzare l’acufene ma ancor più mancanze e solitudini lancinanti (il perenne fischio all’orecchio causato dall’incidente che da bambino gli ha portato via la sua famiglia, in particolare l’amata madre, cameriera e cantante); un attore (Ansel Elgort) che ha studiato danza ed è anche un dj e producer (cercare Ansolo), faccia di bambino e oltre un metro e novanta d’altezza su corpo magrissimo, per un personaggio che tutti conoscono come “Baby” ma alla fine sapremo il suo vero nome. Ragazzo di poche parole e autista del crimine per saldare un debito contratto molti anni prima  proprio a causa della sua straordinaria capacità alla guida, quando le auto, per gioco,  anche le rubava  con un pericoloso boss (Kevin Spacey), mente delle rapine, che di fatto lo tiene in pugno. I sentimenti di Baby, però, sono buoni e il cuore batte tra una tavola calda e una lavanderia al cospetto della ragazza interpretata da Lily James, candore e innocenza,  con l’amore a diventare un nome tra Debra di Beck e Deborah dei T. Rex  in un sogno che ha il canto di Carla Thomas. Brighton Rock dei Queen a dirci l’assoluto per Baby, Never, Never Gonna Give You Up di Barry White a incorniciare umori e figure da notturno western metropolitano; Simon & Garfunkel convocati quasi d’obbligo (Baby Driver); il ventaglio tra Dave Brubeck e i Beach Boys, l’hip hop ipnotico e spiritoso in Was He Slow? di Kid Koala. Le coreografie di Ryan Heffington a rendere il gioco più divertente e anche più ingegnoso. Un cast che “gira” come si deve, con Jon Hamm (il migliore), Jamie Foxx e Eiza González in ottima forma delinquenziale (ma c’è posto anche per “Flea” dei Red Hot Chili Peppers e Jon Bernthal).

Dopo le vicissitudini negative con la Marvel legate al progetto Ant-Man, infine abbandonato, Wright riesce con il suo ultimo film a porsi contemporaneamente in linea e in discontinuità col suo cinema precedente. Un cinema che nella demenzialità per nulla demente, nello stile, nell’accumulo più intelligente che colto della “trilogia del cornetto” (L’alba dei morti dementiHot FuzzLa fine del mondo) è riuscito a esprimere cose che a suo modo lo hanno reso unico, difficilmente riproducibile da altri, e in fondo è accaduto anche con Scott Pilgrim vs. the World, probabilmente la sua prova meno riuscita. Baby Driver se la spassa ancora con la tecnica e la forma, con il montaggio e i dialoghi, perché Wright è uno di quei registi che col cinema riescono anche a divertirsi, oltre che a far divertire.  Non è un capolavoro, si allunga anche un po’ troppo nell’ultima parte, perdendo in fluidità con una drammaturgia più forzata, ma nel suo manipolare felicemente, e con cognizione di causa, immaginari presenti e passati funziona molto bene. Resta da capire se in futuro Wright diventerà più una sorta di “marchio” visivo o continuerà a reinventare acrobaticamente codici e immagini, suoni. Ad ogni modo, non è detto che non possa andare bene in entrambi i casi;  non è detto, anzi, che non sia già successo.